Abbandonata a sé stessa, Haiti è sempre più allo sbando

Foto ANSA

L’ultimo drammatico episodio risale a qualche giorno fa quando due cittadini statunitensi, un’infermiera e suo figlio, sono stati rapiti da una delle tante bande criminali che imperversano nella capitale Port-au-Prince. La signora rapita, Aliz Dorsainvil è un’operatrice umanitaria di un’organizzazione cristiana, “El Roi Haiti”, che lavora vicino alla capitale haitiana con l’obiettivo di «formare leader haitiani che rafforzino le famiglie, ripristinino le relazioni e costruiscano comunità sane», come si legge nel sito dell’organizzazione.

Dal giorno dell’omicidio del presidente Jovenel Moïse, avvenuto il 7 luglio 2021 ad opera di un commando composto da sicari colombiani e haitiano-statunitensi, il Paese è formalmente di fronte a un vuoto di potere (il reggente è il primo ministro Ariel Henry) che lascia ampio spazio all’anarchia e al bellum omnium contra omnes delle diverse bande criminali presenti da lungo tempo. In questi ultimi anni a diventare merce di scambio in cambio di un riscatto non sono solo gli stranieri (fra cui diversi professionisti e operatori umanitari) ma la stessa popolazione civile haitiana, in una situazione in cui le autorità armate legittime sono quasi del tutto scomparse. Molte famiglie haitiane non mandano più i figli a scuola per paura che siano sequestrati; e non andando a scuola non solo si privano quei ragazzi dell’istruzione (la leva più importante per il riscatto civile e sociale di quella popolazione) ma si impedisce loro di ricevere anche un’adeguata sicurezza alimentare, visto che i pasti forniti dalle scuole danno un contributo importante ai bilanci familiari.

Dopo un doloroso passato coloniale non del tutto cessato, Haiti sembrerebbe condannata a una sorta di dannazione senza soluzione di continuità, tra eventi naturali catastrofici (in particolare uragani e terremoti, il più terribile dei quali – nel 2010 – ha causato circa 230.000 morti), numerosi colpi di Stato e regimi dittatoriali, instabilità politica e corruzione, povertà estrema, fame e continue violenze. Chi ha viaggiato ad Haiti – non da turista – sa bene che in quella porzione di paradiso caraibico si cela un inferno dove la vita umana non vale nulla e dove si uccide senza alcuna remora chiunque possa costituire una qualche fonte di guadagno. In questo scenario, come ha dichiarato Cindy McCain, la direttrice esecutiva del Programma alimentare mondiale (Pam), la crisi alimentare ad Haiti anche a causa delle bande armate «è invisibile, inascoltata e non affrontata», con 4,9 milioni di haitiani che lottano ogni giorno per mangiare.

D’altra parte, ad Haiti le bande armate non sono un fenomeno recente. La nascita delle gang criminali e dei gruppi paramilitari ha origini lontane, a cominciare dal periodo immediatamente successivo all’agognata indipendenza dalla Francia, avvenuta nel 1804. Un’indipendenza pagata a caro prezzo non solo in termini di vite umane ma anche economici, giacché la Francia pretese un oneroso “risarcimento” che di fatto condizionò la storia dello sviluppo economico e sociale del Paese. Il paradosso, infatti, fu che per poter pagare quel “risarcimento” Haiti fu costretta a chiedere un prestito alle banche francesi, dando vita a un fenomeno storicamente ricordato come “doppio debito”. È stato calcolato che fino al 1911, per ogni tre dollari incassati dalle tasse sul caffè, 2,53 dollari furono usati per ripagare il debito controllato dagli investitori francesi. Nei primi lustri del Novecento, alla povertà indotta dal paradosso del “doppio debito” si sommò la perenne instabilità politica. Nell’arco di soli 4 anni, infatti, furono uccisi sette presidenti. Un caos ingovernabile dalle forze politiche del Paese che indusse gli Stati Uniti ad intervenire militarmente nel 1915 (e fino al 1934), con l’obiettivo di stabilizzare il Paese.

In realtà, l’occupazione statunitense (contrassegnata da esecuzioni sommarie e episodi di razzismo) servì a controllare molte istituzioni locali, compreso le banche e la tesoreria nazionale. Peraltro, durante tale periodo il 40% del reddito nazionale haitiano venne utilizzato per pagare i debiti alle banche francesi e statunitensi. Alcuni studiosi ritengono che se Haiti non avesse dovuto pagare i “risarcimenti” in questione la sua economia conterebbe oggi circa 21 miliardi di dollari in più: un dato che avrebbe garantito un futuro ben diverso a quel Paese.

Le cose non cambiarono neppure dopo il secondo conflitto mondiale. È in questo clima invivibile dal punto di vista sociale e politico che nacquero le prime forze paramilitari, a cominciare da quella creata dal presidente-dittatore François Duvalier, denominata Tonton Macoute: una sorta di polizia segreta e guardia personale fuori dalla legalità, utilizzata dal presidente per sopprimere ogni opposizione. I macoutes continuarono a imperversare anche negli anni in cui al potere fu il figlio di François Duvalier, Jean Claude (sino al 1986), e in quelli seguenti, fino a giungere agli anni Novanta e oltre.

Le bande armate hanno continuato ad operare a sostegno di diversi partiti politici e, in diversi casi, sono diventate la base delle attuali gang (circa 200) che imperversano oggi ad Haiti, per lo più concentrate nella capitale. Non ci sarà da rimanere sorpresi, pertanto, se nelle circostanze attuali – come ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres – si manifesterà il «bisogno di un’azione armata per consentire la creazione di corridoi umanitari». Un’azione che – si spera – non porti con sé anche gli ignobili episodi di abusi sessuali perpetrati dal contingente dell’ONU a danno di giovani haitiane, come avvenne all’indomani della missione “Minustah” conclusasi nel 2017.

Raffaele Callia

Immigrazione e proteste in Francia: le radici di un fenomeno complesso

Foto di Metin Ozer

In un’intervista realizzata per “Le Monde” da Anne Chemin, a settembre dello scorso anno, lo storico francese Emmanuel Blanchard, professore a Sciences Po Saint-Germain-en-Laye e autore del volume Histoire de l’immigration algérienne en France (La Découverte, 2018), ha ricordato come «dagli anni Trenta in poi, e soprattutto dopo il 1945, questa violenza della polizia si è manifestata ogni volta che i “colonizzati” manifestavano a Parigi o nelle province. La polizia non li trattava come cittadini, ma come “nativi”. Il 28 maggio 1952, l’unico morto della mobilitazione contro il generale Ridgway è stato un algerino, colpito da un proiettile; nel 1953 la polizia ha aperto il fuoco sulla marcia non violenta del movimento di Messali Hadj, uccidendo 7 manifestanti, senza dimenticare, naturalmente, il massacro del 17 ottobre 1961. Nel Dopoguerra, la polizia ha trattato i “musulmani francesi” d’Algeria in modo ancora più duro di come l’esercito, nel 1891, ha brutalizzato gli operai di Fourmies o altrove».

La reazione violenta messa in atto in questi giorni da migliaia di persone riversatesi in diverse città francesi, in seguito all’uccisione di Nahel Merzouk, un diciasettenne ucciso a Nanterre (nella banlieue Nord-Ovest di Parigi) da un agente di polizia durante un controllo stradale, ha posto nuovamente sotto i riflettori il tema dell’integrazione incompleta nelle periferie francesi e della repressione sistematica da parte delle forze dell’ordine, in un crescendo di prese di posizione da parte di certi gruppi politici che non fanno altro che rafforzare l’esclusione di alcune categorie marginalizzate sulle quali pesano difficoltà sociali ed economiche, oltre che la discriminazione culturale.

Gli scontri di questi giorni insegnano questo: ci si occupa di un fenomeno – anche e soprattutto dal punto di vista mediatico – soltanto quando questo è divenuto un problema, possibilmente un’emergenza di vaste proporzioni, con tutto il corollario di violenze e situazioni drammatiche. Tuttavia, si tratta di un approccio alle questioni che impedisce di vedere laddove bisognerebbe guardare attentamente, ovverosia alle radici profonde di questo malessere.

Come non ricordare quanto avvenne nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 2005, quando nella periferia di Clichy-du-Bois due minorenni, ritenendo di essere inseguiti dalle forze dell’ordine a seguito di un intervento di alcuni poliziotti, si rifugiarono in una centralina elettrica dove trovarono la morte. Anche in quel caso vi furono numerose protese: il disagio, il malessere che aveva covato inascoltato per così tanto tempo nelle periferie urbane si trasformò in una drammatica esplosione di violenza. L’adozione di provvedimenti tesi a ripristinare la sicurezza e l’ordine pubblico anche in quel caso non sortirono alcun effetto se non quello di acutizzare ulteriormente lo scontro tra le forze dell’ordine e i manifestanti e di propagarlo anche in altre zone della Francia. In quell’occasione il grande storico Jacques Le Goff si domandò se ci sarebbero mai state queste moderne jacqueries se la politica avesse favorito a suo tempo una programmazione in termini di inclusione sociale, di sostegno all’occupazione, di cura della vivibilità nelle periferie urbane. Certamente si sarebbe potuto stemperare il potenziale di violenza se il ministro degli Interni francese dell’epoca, divenuto poi presidente della Repubblica, il neo-gollista Nicolas Sarkozy, non avesse usato l’espressione piuttosto colorita di “feccia” da spazzare con un’idropulitrice a proposito dei manifestanti.

Oggi la storia si ripete tale e quale, ma le radici profonde di questo malessere rimangono ben piantate in un terreno tutt’altro che fertile. Un terreno nel cui sottosuolo covano ideologie pericolose alimentate dal rancore e dall’odio di cittadini che si sentono declassati, che vivono in habitat malsani e con un destino minato dalla povertà e dall’esclusione.

Raffaele Callia

Pellegrini sulle orme di Pietro. I volontari dei Centri di ascolto raccontano la loro esperienza a Roma

Su iniziativa della referente dei Centri di ascolto e grazie alla favorevole accoglienza della proposta da parte dell’Amministratore apostolico e del direttore della Caritas diocesana, una ventina di volontari dei Centri di ascolto di Iglesias, Carbonia e Sant’Antioco, hanno potuto vivere un pellegrinaggio a Roma il giorno 23 maggio e partecipare all’Udienza generale del Papa il giorno successivo.

Per diversi fra i partecipanti è stata l’occasione per conoscere di persona luoghi di preghiera mai visitati: un’esperienza che ha arricchito sotto il profilo umano e spirituale e che resterà sempre nel loro cuore.

Stando a Roma dal 23 maggio, giorno prima dell’udienza, si è potuto godere della compagnia di persone impegnate nel prezioso servizio di ascolto della Caritas e che sono state vicine a tutto il gruppo, dando sostegno e grande esempio di spiritualità e perfetta organizzazione del pellegrinaggio, affinché tutto si realizzasse in assoluto ordine, disciplinato da grande sacrificio.

Martedì 23 il gruppo ha avuto l’opportunità di pregare presso la Basilica di San Giovanni in Laterano e salire con devozione i gradini della vicina Scala Santa. La salita dei 28 gradini di marmo bianco, in ginocchio, è avvenuta con la sensazione che ci fosse qualcuno che ci aiutasse a sopportare la fatica, senza provare alcun dolore, nonostante i lividi alle ginocchia.

Ci si è poi diretti alla Basilica di Santa Maria Maggiore, dove è stato possibile pregare insieme il Rosario nella Cappella Paolina, innanzi all’antica icona della Vergine, detta “Salus populi romani”. A Santa Maria Maggiore, si è respirata quell’aria, che troppe volte manca: di serenità e di pace interiore.

Mercoledì 24 è stato il giorno tanto atteso per l’udienza. In Piazza San Pietro era presente una moltitudine di persone provenienti da varie regioni d’Italia e da diversi Paesi di tutto il mondo. Tutti convenuti in quel luogo per incontrare Papa Francesco. L’udienza del Papa è stato il momento più emozionante, in un clima di grande gioia condiviso non solo con i compagni di viaggio ma anche con persone mai conosciute, in perfetta comunione di fede e felicità per la straordinaria esperienza che si stava vivendo.

Nella sua catechesi il Papa ci ha esortato con forza ad essere, nel mondo, degli evangelizzatori pieni di zelo apostolico; dei testimoni credibili e responsabili nel portare il messaggio di Gesù, con il cuore colmo di gioia e di forza. Il Santo Padre ci ha riempito di nuove energie ed è sempre un’emozione forte sentire ciò che ha da dire. Egli ci ha parlato dell’importanza della componente laica nella Chiesa, attraverso la testimonianza di vita di un martire coreano: Sant’Andrea Kim Tae-gon.

L’esperienza a Roma è stata molto formativa: ci ha permesso di familiarizzare fra di noi in modo fraterno e sentirci un’unica famiglia unita dal servizio ai poveri; ancora di più è stato importante camminare insieme con lo stesso passo, in spirito di condivisione. Abbiamo respirato un’aria di fraternità, in cui tutti, come una famiglia, ci siamo presi cura gli uni degli altri. Abbiamo condiviso momenti di gioia e di commozione davanti al Santo Padre, momenti di preghiera e di riflessione e anche momenti di apprensione per chi si è trovato in difficoltà. Tutte queste cose ci hanno rafforzato e ci hanno fatto crescere nella strada del servizio.

Si è camminato insieme, seguendo l’esortazione lanciata dal Sinodo: c’è stato chi ha camminato più velocemente, alcuni più lentamente; ma l’importante è stato andare avanti unitamente, ciascuno coi propri passi. Da questo camminare insieme ne è derivata gioia, fatica, e preoccupazione trasformatasi in una grande quiete fraterna condivisa da tutti i partecipanti. La diversità delle persone ha creato in ciascuno la meraviglia di sentirsi parte di una grande famiglia.

Una volontaria ha descritto questa giornata come una sorta di maternità, con un travaglio e una nascita. L’esperienza di pellegrinaggio e la catechesi del Papa ci hanno esortato ad avere il coraggio di rialzarsi quando si cade, portando avanti ciò che è essenziale nella vita cristiana: la grazia di evangelizzare con il cuore pieno di gioia, pieno di forza portando avanti sempre, in ogni circostanza, l’insegnamento del Signore Gesù.

Le volontarie e i volontari dei Centri di ascolto Caritas della diocesi di Iglesias

IT-ALERT. Al via il test del nuovo sistema di allarme pubblico in Sardegna

Venerdì 30 giugno, alle 12 circa, i telefoni cellulari in Sardegna saranno raggiunti da un messaggio di test IT- alert, il nuovo sistema di allarme pubblico nazionale. Tutti i dispositivi agganciati a celle di telefonia mobile nella nostra regione suoneranno contemporaneamente, emettendo un suono distintivo diverso da quello delle notifiche a cui siamo abituati.

Chi riceve il messaggio di test non ha nulla da temere, e non dovrà fare nulla tranne leggere il messaggio. L’invito per tutti, che abbiano ricevuto correttamente il messaggio o meno, è ad andare sul sito it-alert.it e rispondere al questionario: le risposte degli utenti, infatti, consentiranno di migliorare lo strumento.
Nei prossimi mesi saranno effettuati ulteriori test nelle altre regioni italiane. Superata la fase di test, IT-alert consentirà di informare direttamente la popolazione in caso di gravi emergenze imminenti o in corso, in particolare rispetto a sei casistiche di competenza del Servizio nazionale di protezione civile: in caso di maremoto (generato da un terremoto), collasso di una grande diga, attività vulcanica (per i vulcani Vesuvio, Campi Flegrei, Vulcano e Stromboli), incidenti nucleari o emergenze radiologiche, incidenti rilevanti in stabilimenti industriali o precipitazioni intense. È importante sottolineare che IT-alert e non sostituirà le modalità di informazione e comunicazione già in uso a livello regionale e locale, ma andrà a integrarle.
Ogni dispositivo mobile connesso alle reti degli operatori di telefonia può ricevere un messaggio “IT-alert”: non è necessario iscriversi né scaricare nessuna applicazione, e il servizio è anonimo e gratuito per gli utenti. Attraverso la tecnologia cell-broadcast i messaggi IT-alert possono essere inviati a un gruppo di celle telefoniche geograficamente vicine, delimitando un’area il più possibile corrispondente a quella interessata dall’emergenza. Ci sono ovviamente dei limiti tecnologici: un messaggio indirizzato a un’area può raggiungere anche utenti che si trovano al di fuori dell’area stessa oppure in aree senza copertura può capitare che il messaggio non venga recapitato. La capacità di ricevere i messaggi dipenderà anche dal dispositivo e dalla versione del sistema operativo installata sul cellulare: i test serviranno a verificare tutte le eventuali criticità per ottimizzare il sistema.

 

Tutti i materiali informativi sono disponibili al seguente link

“Vieni e vedi”. Una proposta di servizio volontario per i giovani dai 18 ai 30 anni

Vieni e vedi è una bella opportunità che la Caritas diocesana offre ai giovani che intendono mettersi alla prova in un momento di orientamento nel proprio percorso di vita; mentre sono alla ricerca di un lavoro o stanno già lavorando, stanno per terminare un ciclo di studi o ne hanno iniziato uno nuovo o semplicemente desiderano capire come proseguire il proprio cammino. La proposta si rivolge a tutti quei giovani che sentono il desiderio di venire a conoscere meglio il mondo del volontariato in Caritas e che intendono mettere a disposizione, per un periodo breve, medio o lungo, parte del proprio tempo per aiutare gli altri. Venire e poi vedere con i propri occhi quanto di bello e di buono si può fare donando semplicemente sé stessi, anche solo per poche ore. Una bella occasione per mettere testa, cuore e mani a servizio degli altri. Questa proposta di volontariato offre l’opportunità di fare un’esperienza in grado di: favorire la conoscenza di alcune opere e progetti della Caritas diocesana; vivere un’occasione arricchente di socializzazione con gli altri volontari e i beneficiari; accrescere le proprie competenze sul mondo del volontariato, attraverso una pratica formativa ricca di contenuti e valori.

DESTINATARI
Giovani, ragazzi e ragazze di età compresa tra i 18 e i 30 anni, desiderosi di donare alcune ore del proprio tempo nella dimensione della gratuità e del dono di sé. Possono partecipare anche coloro che hanno già fatto esperienze di volontariato e/o di Servizio Civile.

SEDI DEL PROGETTO

  • Uffici della Caritas diocesana di Iglesias, Piazza Municipio 10 – Iglesias (SU)
  • Progetto degli Orti solidali di comunità, Località Monti Santu – Iglesias (SU)
  • Emporio della Solidarietà, Via Crocifisso – Iglesias (SU)
  • Casa di prima accoglienza Santo Stefano, Via Tangheroni 3 – Iglesias (SU)

DURATA
A seconda del tempo a disposizione e delle possibilità, il progetto offre tre modalità:

  • Proposta “small”: 1 giorno di orientamento e 2 giorni di servizio e formazione;
  • Proposta “medium”: 1 giorno di orientamento e 3/4 giorni di servizio e formazione;
  • Proposta “large”: 1 giorno di orientamento e 9 giorni di servizio e formazione.


ACCOMPAGNAMENTO E MONITORAGGIO
Ogni attività avverrà attraverso l’accompagnamento di specifici referenti e tutor dei vari progetti e sarà monitorata attraverso la supervisione della équipe della Caritas diocesana.

A conclusione del percorso la Caritas diocesana rilascerà una certificazione attestante la partecipazione ad attività di volontariato e formative, utile anche ai fini curriculari.

COSTI
Le spese di vitto, trasporto e assicurative sono a carico della Caritas diocesana.

CONTATTI
Per segnalare la tua candidatura o per ricevere ulteriori informazioni sul progetto scrivi a: vienievedi@caritasiglesias.it

 

Scarica qui la scheda descrittiva del progetto.

In Somalia oltre un milione di sfollati interni in tempi record

Foto UNHCR

In circa 130 giorni più di un milione di somali ha lasciato la propria casa per raggiungere luoghi sicuri e lontani da conflitti armati, inondazioni devastanti (in alcune zone) e siccità gravissime (in altre). Molte di queste persone costrette alla fuga dalle regioni di Hiraan, nella Somalia centrale, da Gedo, nella Somalia meridionale, e dal confine con il Kenya, sono giunte in aree urbane sovraffollate e sotto stress per ospitalità già in corso di numerosi sfollati interni. Attualmente, sono oltre 3,8 milioni gli sfollati interni in Somalia, aggravando una situazione umanitaria già estremamente precaria, in cui circa 6,7 milioni di persone lottano ogni giorno per far fronte al proprio fabbisogno alimentare (oltre mezzo milione di bambini risultano gravemente malnutriti).

A denunciare la difficilissima situazione registratasi in Somalia è l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e il Consiglio Norvegese  per i Rifugiati (NRC). I dati a disposizione parlano di un esodo che nei primi 5 mesi di quest’anno è stato causato da violente inondazioni che hanno sommerso interi villaggi, costringendo alla fuga oltre 408.000 persone; da importanti siccità che hanno causato lo spostamento di oltre 312.000 persone; nonché da condizioni di profonda insicurezza e da conflitti armati negli scontri fra le fazioni in lotta nel Paese.

Secondo i dati del Protection and Return Monitoring Network, un progetto (guidato dall’UNHCR e attuato in collaborazione con il NRC) che fornisce informazioni sui rischi di sfollamento e protezione, nell’ultimo periodo questa è la terza volta che in Somalia si supera il milione di sfollati interni in un solo anno. Le due volte precedenti sono state registrate nel 2020 e nel 2022. A differenza degli anni passati, tuttavia, questa crisi si sta verificando all’inizio dell’anno, con 1 milione di sfollati a maggio prima che si affronti il difficile periodo di agosto/settembre.

Si tratta di una situazione allarmante, non conosciuta – e fatta conoscere – adeguatamente dai media internazionali. Come ha dichiarato il direttore nazionale del NRC per la Somalia, Mohamed Abdi, «alcune tra le persone più vulnerabili sono state costrette ad abbandonare il poco che avevano per andare verso l’ignoto. Con un milione di sfollati in meno di cinque mesi possiamo solo temere il peggio nei prossimi mesi, poiché in Somalia ci sono tutti gli ingredienti per una catastrofe pronta ad esplodere».

Non molto diverse sono le parole formulate da Magatte Guisse, rappresentante dell’UNHCR in Somalia: «I bisogni umanitari in Somalia continuano a crescere. Stiamo collaborando con le agenzie umanitarie per rispondere al meglio ma, con l’aumento di giorno in giorno delle persone sfollate, i bisogni sono impellenti. È una grande tragedia assistere all’impatto sulle persone più vulnerabili della Somalia. Sono tra i meno responsabili del conflitto e della crisi climatica, ma sono tra i più colpiti».

Il cosiddetto “Piano di risposta umanitaria per il 2023”, con cui è stato lanciato un appello per 2,6 miliardi di dollari per rispondere entro l’anno in corso ai bisogni primari di circa 8 milioni di somali (di cui circa 1,4 milioni di bambini sotto i 5 anni), rischia di essere già superato da una realtà emergenziale in continua evoluzione. D’altra parte, le Agenzie umanitarie al momento hanno ricevuto soltanto il 22% delle risorse volte a fornire l’assistenza necessaria.

Raffaele Callia

Emilia Romagna: Caritas vicina alle popolazioni colpite dalle alluvioni. Comunicato di Caritas Italiana

Dal sito di Caritas Italiana

Caritas Italiana segue con apprensione quanto sta accadendo in Emilia Romagna, devastata in questi giorni da forti nubifragi e allagamenti, dopo quelli già avvenuti ad inizio mese, ed esprime il suo cordoglio per le vittime e la sua vicinanza alle popolazioni colpite, in particolare a quanti sono stati costretti a lasciare le proprie abitazioni.

“Siamo in costante contatto con il Delegato regionale Caritas dell’Emilia Romagna e con i Direttori delle Caritas diocesane – dichiara don Marco Pagniello, Direttore di Caritas Italiana -, per avere un quadro aggiornato della situazione e individuare insieme le prime necessità a cui far fronte, in coordinamento anche con la Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana e i Vescovi delle diocesi maggiormente coinvolte”.

“I Direttori delle Caritas diocesane dei territori più colpiti, come Cesena, Forlì, Faenza e Imola, riportano una situazione ancora caotica e in cui prevale ora l’esigenza di sgombro dell’acqua e di pulizia delle case sommerse dal fango – segnala il Delegato regionale, Mario Galasso –. Molte strutture diocesane, come empori e mense sono state colpite esse stesse dalle alluvioni, nonostante questo le varie Caritas diocesane e parrocchiali sono già attive nell’ospitare famiglie e nel supportarle sui bisogni più immediati (acqua potabili, coperte, ecc…) e su questi aspetti continueremo ad operare nei prossimi giorni”.

“Quella in corso è una emergenza che interpella tutti e dobbiamo prendere atto di questa realtà. Come scrive papa Francesco nell’Enciclica Laudato Si’ – aggiunge don Pagniello –, dobbiamo sempre ricordarci che ‘non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale’ e che ‘le soluzioni richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura’”. “Per questo come Caritas siamo pronti a intervenire in una prospettiva di accompagnamento che, come già sperimentato in precedenti emergenze in Italia e nel mondo, metta al centro i bisogni delle persone, in particolare di quelle che vivevano già situazioni di disagio sociale ed economico e che rischiano di rimanere escluse da altre forme di supporto”, continua il Direttore di Caritas Italiana.

“Accanto a questo è sempre più evidente come queste crisi climatiche vadano prevenute e occorra denunciare tutte quelle azioni di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente, sia pubbliche che private, sempre più insostenibili”, conclude don Pagniello.

Maggiori informazioni al link di Caritas Italiana
Clicca qui per il comunicato stampa della CEI del 22 maggio

Autonomia differenziata e questione meridionale

Foto di Gherardo Sava

“La trasformazione del Mezzogiorno nella parte più vecchia e dipendente del Paese consolida […] la prospettiva di un Sud assistito, improduttivo; una palla al piede della quale liberarsi. Non è un processo alle intenzioni ricondurre a questi aspetti l’insistenza con la quale a Nord si punta a risolvere “per parti” la crisi italiana e a rivendicare autonomia, continuando ad accampare diritti alla restituzione di illusori e inesistenti residui fiscali”.

Così si esprime un recente Rapporto SVIMEZ a proposito dei mutamenti del Mezzogiorno d’Italia, ponendo l’accento su alcune questioni che richiamano immediatamente alla mente l’impegno dell’attuale Governo nel promuovere nuovi livelli di autonomia (la cosiddetta “autonomia differenziata”) per le regioni italiane. Per il Sud Italia si tratta di mutamenti sotto il profilo demografico (con un progressivo declino della natalità), della mobilità umana (con la persistenza di una emorragia migratoria di giovani e qualificate risorse) e del crescente divario in termini sociali ed economici nei confronti del Settentrione. A fronte di questi mutamenti in negativo la SVIMEZ accenna a un rischio di vera e propria “desertificazione” sociale, umana ed economica per il Mezzogiorno d’Italia.

Un confronto dei dati riguardo al cambiamento degli ultimi 50/70 anni pone bene in evidenza tale “desertificazione”. Negli anni ‘50 del Novecento, il 37,2% della popolazione italiana viveva a Sud e da quest’area proveniva il 49,6% delle nascite del Paese. Nel 2022 solo il 33,6% della popolazione italiana vive nel Mezzogiorno e da esso proviene soltanto il 35,7% delle nascite, per lo più a causa di una bassa fecondità. Nel 2040 l’ISTAT prevede che la popolazione italiana potrebbe ridursi di circa 2,9 milioni di abitanti, 2 dei quali dovuti al declino demografico del Mezzogiorno.

Cambiano dunque i paradigmi di riferimento. Se un tempo gli stereotipi prevalenti erano quelli di un Sud Italia dove le famiglie erano mononucleari, con molti figli e con una solidarietà interna perfino eccessiva, fino a sfociare nel fenomeno del “familismo amorale” teorizzato da Banfield; al giorno d’oggi le diverse aree del Paese si sono uniformate alla realtà di famiglie fluide, poliedriche e con una numerosità incerta, soprattutto con riferimento alla natalità. In questo senso è assai particolare il caso della Sardegna, la quale nel 1951 era la regione più feconda d’Italia (con 3,9 figli per donna) mentre nel 2020 si colloca in fondo alla graduatoria regionale con il tasso di fecondità più basso (meno di 1 figlio per donna).

Mentre una prolifica letteratura sociologica si sforza da qualche anno di interpretare le causa delle bassa fecondità, correlandola non solo ai costumi e agli stili di vita ma anche alle fragilità del mercato del lavoro, all’elevato costo di allevamento dei figli, all’assenza di solide infrastrutture sociali e reti di welfare in grado di sostenere le strategie genitoriali, alcuni analisti si soffermano in particolare sul ruolo delle politiche pubbliche per il Mezzogiorno, dopo 72 anni di interventi straordinari (a cominciare dalla istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, nel 1950) non in grado di ridurre i noti divari tra Nord e Sud. Uno di questi analisti, Carlo Borgomeo (attuale presidente della Fondazione con il Sud e sindacalista di lungo corso), sostiene la tesi di una “errata cultura dello sviluppo, tutta quantitativa ed economicistica; tutta basata sull’esigenza di rendere forte e potente l’offerta di risorse; e sostanzialmente disattenta alla domanda, alle energie locali, alle responsabilità locali. I meridionali, popolo ed istituzioni, destinatari e non corresponsabili delle politiche e degli interventi”. In altri termini, per Borgomeo non può esserci sviluppo solido e duraturo se non vi è una sufficiente dotazione di capitale sociale.

In un momento delicatissimo per la vita del Paese, nel quale le forze di governo sono intenzionate a metter mano al tema delle “autonomie differenziate”, è da considerare quanto mai opportuno il richiamo alle parole dei Vescovi italiani, i quali nell’ottobre del 1981, in un documento dal titolo La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, affermano che “Il Paese non crescerà, se non insieme”. Tema che verrà poi ripreso in un altro documento dell’episcopato italiano (26 ottobre 1989) dal titolo “Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno”. Se ne potrebbe suggerire una rilettura a quanti, tra i rappresentanti politici attuali che dichiarano di ispirarsi ai valori evangelici, avranno la responsabilità di formulare delle specifiche riforme in materia.

Raffaele Callia

Come interrompere la trasmissione intergenerazionale della povertà

Foto The New York Public Library da Unsplash

Lo scorso anno Caritas Italiana e Caritas Sardegna hanno condotto uno studio delle situazioni di povertà ereditaria. A livello nazionale, nelle storie di deprivazione intercettate, i casi di povertà intergenerazionale pesano per il 59,0%; nelle Isole e nel Centro il dato risulta ancora più marcato, pari rispettivamente al 65,9% e al 64,4%.

Il rischio di rimanere intrappolati in situazioni di vulnerabilità economica, per chi proviene da un contesto familiare di fragilità, è di fatto molto alto. Il nesso tra condizione di vita di chi chiede aiuto alla Caritas e condizioni di partenza si palesa su vari fronti oltre a quello economico: in primis nell’istruzione. Le persone che vivono oggi in uno stato di povertà, nate tra il 1966 e il 1986, provengono per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti (oltre il 60% dei genitori possiede al massimo la licenza elementare).

L’Osservatorio delle povertà e delle risorse della diocesi di Iglesias, così come realizzato da Caritas Italiana e Caritas Sardegna, ha contribuito all’esplorazione del fenomeno. L’ha fatto attraverso un focus group tra operatori sociali, un’intervista e tre beneficiari e a due volontari.

Il focus group è stato realizzato a febbraio del 2022 e sono stati affrontati i seguenti temi: la percezione della povertà intergenerazionale; le cause che alimentano la trasmissibilità della povertà; gli elementi che possono rompere la catena di povertà; le risorse da mettere in campo per favorire la mobilità sociale; i suggerimenti e le idee per offrire maggiori opportunità di riscatto sociale. Tra le cause che alimentano il fenomeno vi sono la bassa scolarità diffusa tra i soggetti incontrati, che limita l’accesso al mondo del lavoro, l’abbandono scolastico e il ruolo delle famiglie nel percorso di studio dei figli. Per spezzare la catena della trasmissione della povertà, dalle esperienze dei partecipanti al focus group è necessario agire su più fronti. Da una parte è indispensabile combattere la povertà educativa per avere gli strumenti necessari per affrontare il futuro, esercitare i propri diritti, avere più opportunità di riscatto sociale ed economico. L’istruzione/formazione come riscatto è una delle possibili soluzioni al superamento del fenomeno. In particolare, una delle persone intervistate durante la ricerca ha rilevato che «il versante formativo può avere una grande rilevanza quando si ha la possibilità di un rapporto non occasionale ma continuativo; allora […] si può ragionare e provare insieme a parlare di futuro, costruire e risvegliare le energie che sono in ognuno». Ciò vale soprattutto in riferimento ai giovani.

Oltre al focus group, al quale hanno preso parte dei rappresentanti del volontariato vincenziano, dell’Emporio della Solidarietà della Caritas, del Consultorio familiare diocesano, della Sodalitas, del Comune di Iglesias, della Scuola secondaria di secondo grado e un parroco di Iglesias, sempre a livello diocesano sono state realizzate anche delle interviste a tre beneficiari e a tre volontari della Caritas. Anche da tali testimonianze emerge come le tre leve per sradicare il fenomeno della trasmissione intergenerazionale della povertà siano l’istruzione, la consulenza familiare e la formazione al lavoro. Un buon livello di istruzione costituisce una delle principali leve in grado di favorire la mobilità sociale, essendo strettamente correlato a un accesso più ampio in termini di opportunità lavorative e a una migliore posizione contrattuale e retributiva. Ad elevati titoli di studio, peraltro, corrispondono anche maggiori condizioni di benessere e di crescita complessiva della persona in termini psico-sociali e culturali.

Nell’indagine realizzata da Caritas Sardegna sono stati presi in esame 85 casi complessivi di persone di età compresa tra i 36 e i 56 anni (nati dunque tra il 1966 e il 1986), su una quota di campionamento teorico stratificato pari a 134, avendo concentrato l’attenzione sui soli beneficiari italiani non coinvolti in situazioni di povertà estrema (in linea con l’indagine nazionale). Anche la ricerca regionale conferma uno stretto vincolo tra il basso livello di istruzione dei genitori e il basso titolo di studio conseguito dai figli. Sia le madri che i padri dei beneficiari (persone nate tra gli anni ’40 e ’60), si collocano infatti su livelli formativi molto bassi, prevalendo coloro che hanno conseguito la sola licenza elementare. Il dato si avvicina al 50,0% per entrambi (il 49,4% per i padri e il 47,5% per le madri); seguono a distanza quanti possiedono la licenza media inferiore (oltre un quarto del totale nel caso delle madri e un quinto per i padri). Pertanto, la percentuale di laureati e diplomati è bassissima.

Le famiglie d’origine descritte dagli intervistati sono spesso caratterizzate da situazioni di evidente instabilità relazionale nei rapporti tra i genitori e, di conseguenza, nel rapporto con i figli. Da tutte le interviste effettuate emergono famiglie d’origine vulnerabili, allargate, ricomposte, monogenitoriali (ragazze madri ma anche padri single), contrassegnate da conflitti non sanati, quasi sempre caratterizzate dalla precarietà lavorativa dei genitori (lavori a intermittenza, sottopagati e irregolari). Alcune volte si tratta di famiglie molto povere economicamente e con molti figli a carico.

Ai beneficiari dei Centri di ascolto è stato domandato quale fosse la professione dei propri genitori; nel caso di più occupazioni è stato chiesto di far riferimento a quella svolta per più tempo. I padri delle persone intervistate risultano impiegati per lo più come artigiani o operai specializzati o in occupazioni non qualificate; a seguire si collocano coloro che operano nel campo delle professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi e nella classe occupazionale dei conduttori di impianti e conducenti di veicoli. Rispetto alla condizione occupazionale delle madri, è evidente l’elevata incidenza delle casalinghe, le quali costituiscono il 69,0% del totale. Tra chi invece svolge un lavoro, una quota significativa si colloca nel gruppo delle professioni non qualificate; seguono le madri occupate nelle attività commerciali e nei servizi. Anche tra le madri il peso di chi si posiziona su categorie professionali di minore specializzazione risulta quindi molto elevato. Per quanto concerne la condizione occupazionale dei figli, vale a dire dei beneficiari dei Centri di ascolto Caritas, è assai elevata la quota di quanti hanno dichiarato di essere disoccupati.

Sara Concas
Osservatorio delle povertà e delle risorse
Caritas diocesana

Il Sudan rischia una nuova gravissima crisi umanitaria

Foto di Chetan Sharma su Unsplash

Ai primi di febbraio di quest’anno Papa Francesco ha visitato il Sud Sudan insieme all’arcivescovo anglicano di Canterbury, Justin Welby, e al moderatore della Chiesa di Scozia, Jim Wallace. Una visita importante in una terra martoriata dai conflitti etnici e dalle divisioni – alimentate anche dalla guerra per il petrolio -, con oltre 3 milioni di sfollati interni, di cui oltre 30.000 nella sola regione di Juba.

Il mese scorso un ennesimo tentativo di colpo di Stato ha fatto precipitare nuovamente nel caos il Paese africano, con uno scontro aperto che vede contrapposti da un lato l’organizzazione paramilitare denominata “Forze di Supporto Rapido” (RSF), guidata dal generale Mohammed Dagalo; dall’altro le forze dell’esercito ufficiale guidato dal capo di stato maggiore Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, nonché capo di Stato de facto dopo il golpe dell’ottobre 2021. Gli scontri nella capitale, Khartoum, hanno fatto registrare alcune centinaia di vittime fra i civili e hanno allertato la comunità internazionale, dando vita a imponenti evacuazioni di cittadini stranieri, fra cui quasi 150 italiani.

A permettere un clima di stabilità al Paese non è bastata la rivoluzione democratica del 2019, che aveva chiuso i conti con la leadership di Omar Hasan Ahmad al-Bashir, accusato dalla Corte penale internazionale dell’Aia di genocidio, a causa delle violenze inferte alle minoranze non arabe del Darfur. Il processo democratico e l’accordo di transizione verso un governo civile, infatti, sono stati ampiamente compromessi dagli stessi militari che oggi si fronteggiano su campi opposti, i quali, a loro volta, sono influenzati da interferenze che provengono dall’estero, che si poggiano su rilevanti interessi economici e che hanno tutto l’interesse a gettare benzina sul fuoco. Fra le interferenze più evidenti quella del vicino Egitto, ma anche della Libia del controverso Khalifa Haftar (nei giorni scorsi scorsi ricevuto a Roma dal presidente del Consiglio Meloni), del Ciad, degli Emirati Arabi Uniti e della stessa milizia russa Wagner.

Di fronte all’affanno diplomatico delle Nazioni Unite alcuni Paesi della regione facenti capo all’Unione africana, tra cui Gibuti, stanno provando a chiedere il cessate il fuoco e a percorrere la strada di una mediazione tra le parti in conflitto. Nel frattempo, giungono notizie allarmanti dalla regione occidentale del Sudan, il Darfur, ove sono ripresi gli scontri armati tra la componente araba e quella non araba, richiamando alla memoria il drammatico scontro genocida dei primi anni del 2000, con oltre 300.000 morti a causa della violenza e oltre 400.000 per carestia e malattie. La guerra scoppiata a Khartoum, pertanto, rischia di riaccendere pericolosamente il conflitto nel Darfur e far divampare una guerra civile su vasta scala.

A causa dei conflitti in atto gli operatori umanitari non riescono a portare avanti il proprio lavoro, con un sistema sanitario che è quasi al collasso. Tutto ciò rischia di trasformare questo ennesimo scenario di caos militare e politico in un’ennesima crisi umanitaria, in un Paese con oltre 40 milioni di abitanti e un’infinità di problemi che non potranno essere risolti finché la politica non riprenderà il proprio posto facendo finalmente tacere le armi.

Raffaele Callia