Haiti, terra ferita e dimenticata

Situata nel suggestivo scenario del Mar dei Caraibi, Haiti vive da anni una crisi profonda che l’ha trasformata in un inferno sociale, politico ed economico. Oggi il Paese affronta una delle fasi più drammatiche della sua storia: le istituzioni sono al collasso, la violenza dilaga e la popolazione è travolta da una catastrofe umanitaria senza precedenti. Maria Isabel Salvador, rappresentante speciale dell’ONU, ha dichiarato che Haiti è «vicina a un punto di non ritorno e a un caos totale».

Le radici della crisi sono profonde, ma l’instabilità ha subito un’accelerazione dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021. Da allora, il Paese è rimasto senza una guida politica stabile. Il Consiglio presidenziale di transizione, incaricato di gestire l’emergenza, ha fallito nel ristabilire l’ordine, organizzare elezioni e contrastare l’ascesa delle bande armate, che oggi rappresentano il vero potere in molte aree del territorio: conquistano, saccheggiano, usando violenza sulle persone, senza risparmiare i bambini e senza fare sconti alle organizzazioni umanitarie e caritatevoli, comprese quelle gestita dalla Chiesa cattolica e, in particolare, dagli ordini religiosi. Tutto ciò, attraverso la rete Caritas, ci viene confermato dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, conosciute anche come Salesiane di Don Bosco, le quali hanno un legame particolare con la Sardegna. I sardi, infatti, dopo il terribile terremoto del 2010, risposero generosamente a quella tragedia dando vita ad una importante raccolta di fondi che permise la ricostruzione di una scuola e l’avvio di alcune importanti iniziative di carattere promozionale ed educativo. Più recentemente, la Delegazione regionale Caritas della Sardegna ha accolto la richiesta delle Suore salesiane al fine di sostenere un progetto, denominato “Per crescere bene. L’educazione è essenziale”, volto a favorire il rinforzo della sicurezza alimentare ed educativa di 50 bambini haitiani.

Di fronte a questa prolungata e profonda stagione di crisi la risposta della comunità internazionale è stata timida. D’altra parte, la popolazione haitiana guarda con una certa diffidenza a qualsiasi intervento esterno, memore dei fallimenti delle precedenti missioni ONU. Nel 2023, il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato una missione multinazionale di supporto alla sicurezza, guidata dal Kenya, ma l’operazione ha subito ritardi e ostacoli, e non ha ancora ottenuto la fiducia della popolazione. A complicare ulteriormente la situazione, si aggiungono i tagli ai finanziamenti da parte dell’attuale amministrazione statunitense in favore dell’Agenzia USA per Sviluppo Internazionale (United States Agency for International Development – USAID).

Oggi, circa il 90% della capitale Port-au-Prince è sotto il controllo di oltre 150 gang criminali. Queste bande sono responsabili di estorsioni, rapimenti, stupri e omicidi. La violenza ha costretto oltre un milione di persone ad abbandonare le proprie case, generando una crisi di sfollati interni senza precedenti (quasi un milione e mezzo di persone) .

In un solo anno, il conflitto haitiano ha causato oltre 5.500 vittime civili, un numero paragonabile a quello registrato in Ucraina. La vita quotidiana è paralizzata: i commerci sono fermi, gli ospedali non funzionano, le scuole restano chiuse. La popolazione vive nel terrore, con accesso limitato a cibo, acqua e cure mediche.

Un episodio particolarmente tragico si è verificato tra l’11 e il 12 settembre scorso nel villaggio di Labodri, a nord-ovest della capitale, Port-au-Prince. Amnesty International ha denunciato un massacro compiuto da bande armate: oltre 40 persone uccise, case incendiate, corpi abbandonati per strada. Un simbolo crudele della crisi che devasta il Paese.

Secondo Stéphane Dujarric, portavoce del Segretario Generale dell’ONU, l’attacco di Labodri evidenzia l’assenza quasi totale di un’autorità statale. Si stima che tra i 6 e i 7 milioni di haitiani — circa il 60% della popolazione — abbiano urgente bisogno di aiuti umanitari. Malnutrizione, colera e altre malattie sono in forte aumento.

Haiti è sospesa tra la sopravvivenza e il collasso. Senza un intervento rapido e coordinato, milioni di persone continueranno a vivere in condizioni disumane, esposte a violenza, fame e malattie. È urgente un impegno collettivo per ristabilire quanto prima la sicurezza, tutelare i diritti umani e ricostruire le istituzioni democratiche.

Raffaele Callia
(tratto da www.caritassardegna.it)

13 settembre 2025. A Villamassargia la seconda edizione dell’iniziativa “Musica e solidarietà”

Sabato 13 settembre 2025 si è tenuta la seconda edizione dell’iniziativa denominata “Musica e solidarietà”, promossa dalla Parrocchia Vergine della Neve di Villamassargia in collaborazione con la Caritas diocesana di Iglesias e il Gruppo scout Agesci Villamassargia 1.

La serata musicale ha avuto per tema “Quel poco che abbiamo, quel poco che siamo, se condiviso, diventa ricchezza”, una frase di Papa Francesco tratta dall’omelia in occasione della solennità di Corpus Domini del 30 maggio 2013. L’evento ha visto il susseguirsi di tanti artisti, la maggior parte dei quali giovanissimi, che si sono alternati sul palco offrendo un’ampia fetta di generi
musicali, dal rock, al punk, dal pop, alla musica leggera, reinterpretando grandi successi italiani ed esteri.

Un centinaio di persone ha preso parte all’iniziativa di sensibilizzazione sulle tematiche della solidarietà. Oltre alla musica, infatti, non è mancato lo spazio per raccontare sinteticamente i progetti della Caritas diocesana e illustrare in particolare l’operato dell’Emporio sito in Iglesias, Exmà, in Via Crocifisso n. 97, attivo dal 2016. La referente del progetto, Rita Caria, insieme ai volontari presenti hanno raccontato il loro servizio, incoraggiando i presenti a rendersi corresponsabili di un impegno e di un’attenzione nei confronti del prossimo che non siano episodici, ma, come anche ha tenuto a sottolineare il parroco don Maurizio Mirai, che contribuiscano a generare e a far crescere una cultura della carità come germe di pace e di
giustizia sociale.

«Pensando a questa serata riflettevo che si può fare del bene nel poco, nelle cose semplici» ha esordito il vescovo di Iglesias, mons. Mario Farci, nel suo intervento a inizio serata: «questa sera lo facciamo anzitutto incontrandoci e attraverso la musica. I gruppi presenti faranno senz’altro musiche differenti, saranno però delle voci che si accordano nella diversità, un’armonia di voci. Questo è quello che noi dobbiamo diventare nelle nostre comunità cristiane, con la nostra originalità e unicità, dobbiamo diventarlo nella società e nel mondo. Questa serata è per noi un insegnamento, ognuno di noi ha le proprie caratteristiche, la propria storia. Ci uniamo insieme per creare questa armonia nella nostra vita, nella nostra Chiesa, nella nostra società perché ci siano sempre meno stonature, sempre meno solisti e possiamo unire le nostre voci per avere il bene l’uno dell’altro».

All’evento hanno preso parte anche il sindaco di Domusnovas, Isangela Mascia, il nunzio apostolico in Sierra Leone, Gambia e Liberia, l’arcivescovo mons. Walter Erbì, e il direttore della Caritas diocesana, Raffaele Callia.

Ilaria Perduca

Gruppo regionale di educazione alla pace e alla mondialità. Una Tre giorni sul tema “Le Chiese: scuole di pace”

Dal 25 al 27 agosto 2025 a Sassari si è parlato di “Chiese: scuole di pace”. Questo il tema trattato nella tre giorni del GREM.

Il 25 agosto dopo la preghiera iniziale e i saluti dell’amministratore dell’Arcidiocesi di Sassari mons. Antonio Tamponi, la cena conviviale e la presentazione dei partecipanti, in dialogo con il nuovo coordinatore Antonello Spanu, nonché direttore della Caritas diocesana turritana.

Il 26 agosto il gruppo si è riunito per pregare assieme con le lodi mattutine e l’approfondimento biblico sul tema pace, a cura di don Roberto Sciolla, seguito dal confronto sui percorsi diocesani e sulle nuove prospettive. Altro momento significativo, l’approfondimento sulla vicenda israelo-palestinese, a cura di Laura Simoncelli, responsabile del Servizio Diritti Umani e Giustizia della Comunità Papa Giovanni XXXIII e coordinatrice del comitato per il Ministero della Pace. Nel pomeriggio si è parlato del Cammino di pace in Sardegna e delle nuove sfide alla luce dell’attuale situazione mondiale (intervento a cura di don Roberto Sciolla) e delle Chiese: scuole di pace (a cura di Laila Simoncelli). Dopo il confronto e il dialogo, la Santa Messa e la cena assieme per concludere, in un clima di fraternità. la seconda giornata ricca di momenti preziosi.

Il 27 agosto, dopo le lodi e l’approfondimento biblico sul tema della pace, a cura di don Roberto Sciolla, si è parlato di prospettive, aspettative, obiettivi del GREM in vista della programmazione del nuovo anno pastorale. Segue la condivisione di quanto discusso nei lavori di gruppo e la proposta di programmazione. Le conclusioni sono affidate al coordinatore regionale Antonello Spanu. Dopo il pranzo, la preghiera conclusiva e i saluti.

Per evitare di condannare l’intero popolo israeliano

Nelle pagine del suo famoso diario, Hetty Hillesum, ignara del suo drammatico destino nel campo di concentramento di Auschwitz, consumatosi alla fine di novembre del 1943 ad opera di fanatici tedeschi ebbri della perversa ideologia nazista, ha lasciato impresso un appello all’umanità dal profondo valore etico, valido ancora oggi per ognuno di noi: «Se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero».

In quelle parole così profonde e drammatiche si intravede in filigrana lo stesso spirito che ha animato più recentemente anche il regista israeliano Ari Folman, anch’egli toccato indirettamente dalla follia nazista, giacché la sua famiglia è stata deportata ad Auschwitz durante l’Olocausto, riuscendo fortunatamente a sopravvivere. Nel suo film d’animazione dal titolo “Valzer con Bashir”, del 2008, Folman racconta il suo dramma interiore quando da giovane soldato israeliano ha assistito personalmente all’eccidio dei campi profughi di Sabra e Shatila, fra il 16 e il 18 settembre del 1982.

Queste due testimonianze, tra le tante esistenti, stanno ad indicarci come la responsabilità di un governo in un dato momento storico, pur raccogliendo margini più o meno ampi di consenso da parte della popolazione civile, non può e non deve rappresentare un intero popolo: nel caso dei tedeschi, citato da Hillesum; così come degli israeliani, come raccontato da Folman.

Sul dissenso e il dramma interiore vissuto dagli israeliani per quanto sta avvenendo a Gaza da quasi due anni, dopo il terribile attentato terroristico subito nell’ottobre del 2023 ad opera di Hamas, si devono citare non solo le continue mobilitazioni e manifestazioni di piazza, l’ultima delle quali tenutasi il 22 luglio scorso con centinaia di persone scese in piazza a Tel Aviv per la “marcia della farina” in favore della popolazione civile di Gaza, affamata e allo stremo delle forze, ma anche il crescente rifiuto dei riservisti  israeliani che non intendono tornare al fronte, di pari passo col tristissimo fenomeno dei suicidi tra i giovani soldati, tema di cui si è occupata recentemente anche la stampa israeliana.

Sono stati, fra gli altri, i quotidiani israeliani Haaretz e Yediot Aharonot a rivelare recentemente la profonda crisi psicologica provata da quei soldati che, appartenendo alle forze di riserva che partecipano al servizio attivo coinvolto sul fronte di Gaza, non hanno retto al trauma psicologico della guerra in corso. Sarebbero almeno 44 i soldati che si sono suicidati dall’inizio della guerra a Gaza, di cui 19 nei primi mesi di quest’anno. La televisione israeliana “Canale 12” ha reso noto che a soffrire di sintomi di stress post-traumatico sarebbero circa 20.000 soldati: cifra che mette in evidenza l’entità della crisi psicologica all’interno delle forze armate israeliane. Sono aspetti di cui tener conto nel prendere in esame la profonda crisi etica che sta attraversando Israele, insieme al numero crescente di disertori e di obiettori di coscienza (destinati inevitabilmente al carcere) che si rifiutano di essere arruolati nelle forze armate di un Paese che sembrerebbe non avere più un obiettivo chiaro e che estende in modo indefinito i periodi di reclutamento.

La stessa catastrofe umanitaria cui si sta assistendo in queste settimane, osceno corollario di una guerra senza fine offerto a una platea mondiale ancora troppo distratta, sta minando la fiducia di ampi settori della società civile israeliana: se all’inizio l’obiettivo era riportare a casa gli ostaggi, oggi quella motivazione è stata derubricata a una delle possibilità dell’azione militare, certamente non la più importante. Così che, come una sorta di resistenza silenziosa a questa barbarie, anche fra i soldati che non riusciranno più a liberarsi dall’incubo delle morti di innocenti, cresce il dissenso e la disobbedienza morale.

Ad essere onesti intellettualmente ed eticamente, è anche grazie a loro – per riprendere le parole di Hetty Hillesum –, a quei soldati che dicono no a una guerra che uccide innocenti, alla società civile israeliana che scende in piazza per prendere le distanze dalle scelte belliciste del proprio governo; è proprio grazie a loro che «non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero».

Raffaele Callia

Cosa insegna la strage di Srebrenica, trent’anni dopo

Foto di Oğuzhan Edman (da Unsplash)

Esattamente 30 anni fa, l’11 luglio 1995, nel pieno delle guerre nazionaliste tra le repubbliche della federazione jugoslava – conflitti cruenti che provocheranno una dolorosissima dissoluzione statuale della Jugoslavia –, soldati dell’esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina guidati dal generale Ratko Mladić (supportati da gruppi paramilitari, i famigerati “Scorpioni”), dopo aver assediato per tre anni la città di Srebrenica la conquistarono manu militari, mettendo in atto, in quella città e nel suo circondario, un orribile massacro di più di 8.300 persone, tra uomini e ragazzi bosgnacchi (bosniaci di religione mussulmana). I maschi dai 12 ai 77 anni, infatti, furono separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani, formalmente solo per essere interrogati ma in realtà per essere sterminati e sepolti in fosse comuni. Vent’anni dopo, da quelle tumulazioni forzate di cadaveri furono riesumate e identificate 6.930 salme, grazie sia agli oggetti personali rinvenuti sia al confronto del loro DNA con quello dei consanguinei superstiti.

Col senno di poi tale carneficina, complice peraltro la sostanziale inerzia ed omissione di intervento da parte di un assai controverso contingente di Caschi blu dell’ONU, fu considerata un vero e proprio genocidio dalla giustizia internazionale e il massacro più grave avvenuto nel cuore del continente europeo dopo la Shoah. Solo recentemente (il 23 maggio 2024) l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha proclamato l’11 luglio “Giornata internazionale di riflessione e commemorazione del genocidio di Srebrenica”, nonostante la storiografia serba neghi apertamente tale crimine e derubrichi il tutto come “guerra difensiva e patriottica” nei libri di testo scolastici. Ancora oggi diversi politici ultranazionalisti serbi non riconoscono i fatti avvenuti a Srebrenica e tendono a giustificare con il diritto di rappresaglia la reazione delle forze militari serbe, continuando ad alimentare – ancora dopo trent’anni – l’ostilità tra le varie comunità etnico-religiose presenti (serbe-ortodosse, croato-cattoliche e bosgnacche-mussulmane).

Ciononostante, la strage di Srebrenica insegna come le istituzioni internazionali, quando ne viene pienamente riconosciuta la legittimità, possono dare vita a sentenze che suonano come un monito lapidario per l’umanità, come nel caso delle condanne del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY), che è riuscita ad incriminare 21 persone, riconoscendo per molte di esse la fattispecie di “genocidio”. Il fatto giuridicamente più eclatante, oltre alla condanna all’ergastolo per Ratko Mladić, è stata la condanna del presidente serbo Radovan Karadžić: condannato prima a 40 anni di carcere e poi, nel 2019, all’ergastolo.

La strage di Srebrenica insegna anche come l’inerzia della comunità internazionale, di fronte a fatti gravi ed evidenti, come i crimini di guerra e i genocidi, così come è avvenuto con il controverso ruolo assunto dal contingente olandese dei Caschi blu dell’ONU, significhi legittimare nella sostanza pratiche disumane e contrarie alla dignità della persona e al concetto stesso di civiltà.

Non solo, la strage di Srebrenica, dopo trent’anni, insegna che la rappresaglia per i presunti crimini commessi da una parte (nel caso specifico, dall’esercito della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina nei confronti dei serbi) non giustifica in alcun modo, per di più forzando le leggi internazionali in materia, i crimini di guerra, il genocidio ed altre pratiche disumane e degradanti (affamare e/o uccidere la popolazione civile, costituire dei campi di concentramento, ecc.).

Tutto questo ed altro ancora insegnano i fatti drammatici di Srebrenica dopo trent’anni, proprio quando il diritto internazionale sembra vivere, al giorno d’oggi, una crisi senza precedenti.

Ma Srebrenica insegna anche altro. Per quanto la Bosnia Erzegovina conviva ancora con il fantasma della guerra e dei genocidi, una nuova generazione – pur non dimenticando il passato – intende voltare pagina cercando di costruire un Paese diverso, percorrendo un cammino di genuina convivenza fra le diverse componenti etnico-religiose. A Srebrenica esiste una squadra di calcio, denominata “FK Guber”, in cui la convivenza la si sperimenta sul campo. Esiste anche una scuola di musica, la “House of Good Tones”, frequentata insieme da giovani bosniaci musulmani e giovani serbi, perché anche strumenti diversi, che suonano partiture diverse, insieme possono dare vita a straordinarie armonie.

Raffaele Callia

Inaugurato il Centro di ascolto Caritas per i bisogni di salute integrale “San Giuseppe Moscati”

Un momento dell’inaugurazione

Nel pomeriggio di lunedì 23 giugno, presso i locali della Parrocchia Cuore Immacolato di Maria in Iglesias, è stato inaugurato il Centro di ascolto per i bisogni di salute integrale “San Giuseppe Moscati”, promosso dalla Caritas diocesana di Iglesias in collaborazione con la Parrocchia Cuore Immacolato di Maria di Iglesias e reso possibile anche grazie all’impiego delle risorse 8xmille della Chiesa cattolica.

La salute integrale della persona è tra le tematiche care alla Caritas nel suo servizio di prossimità concreta, preoccupandosi delle persone fragili, vulnerate da una qualche forma di disagio, avendo il compito di «promuovere, anche in collaborazione con altri organismi, la testimonianza della carità della comunità ecclesiale, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica», come recita il primo articolo dello statuto della Caritas Italiana.

È fuor di dubbio come tra le forme di fragilità presenti nel territorio vi siano anche quelle riguardanti la salute delle persone, in special modo di quanti si trovano in condizioni di vulnerabilità economica. Diversi indicatori, anche alla luce della recente pandemia, pongono in evidenza la crescita di diversi bisogni di salute che condizionano la vita di un numero rilevante di persone che si rivolgono ai servizi della rete Caritas. Si tratta di problematiche che riguardano la sfera delle fragilità della persona in senso integrale, non limitando lo sguardo alle sole problematiche di tipo sanitario.

Da questo stato di necessità nasce l’idea di un Centro di ascolto di salute integrale come strumento che intende completare la risposta ai bisogni della comunità secondo un principio di sussidiarietà, non intendendo interferire con il doveroso servizio pubblico.

Uno degli ambienti del Centro di ascolto “San Giuseppe Moscati”

«Ogni servizio promosso deve partire da una comunità e deve essere radicato in una comunità» spiega Raffaele Callia, direttore della Caritas diocesana, nel suo intervento introduttivo di presentazione del servizio. «Con la comunità della Parrocchia del Cuore Immacolato, la Caritas diocesana ha pensato questo servizio provando a integrarlo in una realtà più ampia. La scelta del nome, San Giuseppe Moscati, è legata senza dubbio all’esperienza professionale di questo medico e santo vissuto tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento; tra i primi, peraltro, a utilizzare l’insulina nel trattamento del diabete. È poi fondamentale l’aspetto della figura di un laico – ha precisato il direttore della Caritas – che ha dedicato la sua professionalità nel servizio ai più deboli; ed è conosciuto, infatti, come il “medico dei poveri”. Una figura che può essere di stimolo a tanti laici che si impegnano a favore dei più deboli. Il servizio è appunto un Centro di ascolto che nasce per intercettare difficoltà, attraverso il sistema rodato dei Centri di ascolto diocesani e parrocchiali. Non ci sarà un accesso diretto e immediato a tale servizio ma solo dietro orientamento da parte di uno di questi Centri, così da favorire un primo ascolto e un discernimento sui bisogni della persona. Le persone indirizzate in questo Centro di ascolto specifico saranno seguite da medici, infermieri, amministrativi che hanno esperienza in campo sanitario e che proseguiranno l’ascolto in profondità su queste problematiche, avendo poi il compito di orientare le stesse alla rete di servizi, anzitutto quelli pubblici, provando a ridurre quel gap nel servizio di salute che sempre più si registra anche nei nostri territori (le lunghe liste d’attesa, le “pastoie” burocratiche, ecc.). In tutto questo influisce anche la scarsa consapevolezza che le persone hanno – molto spesso per mancanza di strumenti culturali – di quelli che sono i diritti e i doveri in materia di salute. Ecco perché – precisa il direttore della Caritas – tra i servizi offerti da questo nuovo Centro di ascolto vi è anche un sostegno in percorsi pedagogici volti ad adottare degli stili di vita sani (alimentazione, attività fisica, uso consapevole dei farmaci, ecc.), un’azione decisa contro ogni forma di dipendenza, compreso l’azzardo patologico. Tutti questi temi rientrano a pieno titolo nella sfera della salute della persona integralmente considerata. Un ringraziamento va sicuramente ai volontari che hanno fatto un lungo percorso di formazione. A noi sta a cuore in primis la relazione con la persona, lasciando ad altri soggetti la parte prestazionale».

L’importanza di un servizio radicato nella comunità è stata ripreso anche dal parroco del Cuore Immacolato: «Il servizio del Centro di ascolto prende il via all’interno del programma della festa patronale della Parrocchia del Cuore Immacolato di Maria – ha precisato don Roberto Sciolla –sottolineando sia importante contribuire non solo dando la disponibilità di un locale, ma ancora più favorendo la sinergia di tutta una comunità riunita».

Presente, a nome dell’Amministrazione comunale di Iglesias, anche l’assessore alle Politiche sociali e dell’inclusione sociale, Angela Scarpa, la quale ha inteso garantire la massima collaborazione del servizio pubblico nella convinzione che il Centro di ascolto avrà una funzione strategica e farà da cassa di risonanza per migliorare il servizio ai cittadini.

Tanta voglia di formarsi e costruire insieme anche nell’intervento di Giovanna Grillo, direttrice di Casa Emmaus, che di recente ha favorito l’apertura degli Ambulatori “TalitàKum”, nati per rafforzare la rete sociosanitaria del territorio cercando di venire incontro alle famiglie che stanno affrontando una situazione di ristrettezza economica. «È stato fatto un altro passo importante», ha concluso il vescovo di Iglesias, mons. Mario Farci, «che mette ancora una volta in evidenza uno degli aspetti positivi di Iglesias: l’unione dei vari operatori. Non è un caso che oggi siano qui riuniti la Caritas, il parroco, il Comune, il Terzo settore, il vescovo; una rete che dobbiamo cercare di tessere e non dobbiamo temere di vedere in essa eventuali buchi, da rinforzare. È un altro passo avanti che facciamo per il bene. Il bene di tutta la comunità».

Ilaria Perduca

Un anno a servizio nell’ascolto e nell’accoglienza

Il 27 maggio, gli undici volontari in Servizio civile presso i Centri di ascolto di Iglesias e Carbonia e la Casa di accoglienza della Caritas diocesana di Iglesias, hanno concluso il loro anno di servizio con una giornata dedicata al bilancio di competenze. Gioia, condivisione e un po’ di emozione hanno connotato questa giornata, che ha visto le ragazze e i ragazzi tirare le fila di un anno impegnativo ma che lascerà un’impronta indelebile nel cuore e nel vissuto di ciascuno. «Cosa porti con te del servizio?» è stata la domanda finale posta a ciascuno di loro, una testimonianza, riportata qui di seguito, che sintetizza 365 giorni di vita donata agli altri, un ricordo per tutti loro, una fonte di ispirazione lasciata a chi sta riflettendo se intraprendere questo servizio e un incoraggiamento a chi lo ha appena iniziato.

Michela (volontaria in Servizio civile presso la Casa di accoglienza “Santo Stefano”, Iglesias): «Il Servizio civile è stata un’esperienza complessa, fatta di alti e bassi. Non sempre è stato facile: ci sono stati momenti in cui mi sono sentita messa alla prova, fuori dalla mia zona di comfort, e a volte ho avuto dubbi su me stessa o sul senso di quello che stavo facendo. Ma è proprio in quei momenti che ho capito quanto potesse essere formativa un’esperienza del genere. Le persone che ho conosciuto lungo il percorso sono state davvero il cuore di tutto: colleghi, utenti, altri volontari. Ognuno a modo suo ha lasciato qualcosa. Ho avuto la fortuna di entrare in contatto con realtà diverse dalla mia, con storie che mi hanno insegnato ad ascoltare meglio, a non dare nulla per scontato, a essere più presente. Sento di essere cambiata, e in meglio. Mi porto con me soprattutto un nuovo modo di relazionarmi con gli altri. Prima tendevo a essere più chiusa, più sulle mie. Ora ho imparato ad aprirmi, ad ascoltare davvero, ad avere più empatia e pazienza. Mi sono resa conto che spesso, dietro atteggiamenti o silenzi, ci sono fragilità o esperienze che non immaginavo. Questa consapevolezza mi ha reso non solo una volontaria migliore, ma anche una persona diversa. Il Servizio civile mi ha insegnato che si può fare la differenza anche nei piccoli gesti, che l’impatto non si misura solo in grandi risultati, ma anche in uno sguardo, in una parola detta al momento giusto. Mi porto via tutto questo: le difficoltà, le soddisfazioni, le persone, le emozioni. E la certezza che, anche se l’anno è finito, ciò che ho imparato continuerà a far parte di me».

Lorenzo (volontario in Servizio civile presso la Casa di accoglienza “Santo Stefano”, Iglesias): «Di questo anno di Servizio civile porto con me una maggiore responsabilità nel saper affrontare le difficoltà, che in alcuni casi non sono mancate e, sempre responsabilità e esperienza per quanto riguarda l’ascolto e la capacità di interagire con persone fragili e meno fortunate di me, che ho avuto
occasione di incontrare nella struttura di prima accoglienza dove ho svolto il mio servizio. Da queste persone non sembra ma ho imparato tanto, alcune delle loro parole le porterò nei miei ricordi per qualche tempo».

 

 

Claudia (volontaria in Servizio civile presso la Casa di accoglienza “Santo Stefano”, Iglesias): «È stata un’esperienza che mi ha fatto crescere e grazie alla quale mi sono messa alla prova. Ho avuto la possibilità di conoscere la realtà della Casa di accoglienza e le persone che ne fanno parte. Mi sono sentita accolta fin da subito e sono stati per me una seconda famiglia. Spero che, in piccolo, sia rimasto qualcosa del mio servizio, che porterò sempre nel cuore».

 

 

 

Federico (volontario in Servizio civile presso il Centro di ascolto “Marta e Maria”, Iglesias): «Del Servizio civile mi porto dietro un nuovo modo di approcciarmi con il prossimo in maniera più diretta ed empatica».

 

 

 

 

 

Milenka (volontaria in Servizio civile presso il Centro di ascolto inter-parrocchiale “Madonna del Buon Consiglio”, Carbonia): «In questo anno ho imparato che non c’è sempre una soluzione immediata ma esserci è già tanto».

 

 

 

 

 

Matteo (volontario in Servizio civile presso il Centro di ascolto inter-parrocchiale “Madonna del Buon Consiglio”, Carbonia): «Dal Servizio civile svolto alla Caritas mi porto dietro una realtà non sempre messa in luce, principalmente di chi ha difficoltà e riesce a sconfiggere la “vergogna” di chiedere aiuto».

 

 

 

 

Laura (volontaria in Servizio civile presso il Centro di ascolto inter-parrocchiale “Madonna del Buon Consiglio”, Carbonia): «Della esperienza di Servizio civile in Caritas porterò con me il valore della gratuità dell’aiuto. Durante questo anno ho compreso quanto sia importante offrire il proprio tempo, le proprie energie e la propria presenza a chi ne ha bisogno, non per ricevere gratitudine o sentirsi migliori, ma semplicemente perché è giusto farlo. Perché è un dovere civico e, ancora
prima, un gesto profondamente umano. Aiutare senza aspettarsi nulla in cambio significa riconoscere l’altro come parte di una stessa comunità, come qualcuno che merita ascolto, rispetto e sostegno, a prescindere dagli errori che ha commesso o dalle differenze che ci dividono. È un modo per affermare la nostra umanità e per contribuire, nel nostro piccolo, a una società più solidale. Questa consapevolezza mi accompagnerà anche oltre il Servizio civile, come un punto fermo nel mio modo di stare nel mondo».

Mattia (volontario in Servizio civile presso la Casa di accoglienza “Santo Stefano”, Iglesias): «Con me porterò sempre il bellissimo rapporto creato coi miei colleghi che mi ha aiutato ad andare avanti, bellezza della delicatezza di certe realtà che a volte non riusciamo neanche ad immaginare e la grande passione ed impegno dei volontari, persone con grande cuore e grande anima».

 

 

 

Nicola (volontario in Servizio civile presso il Centro di ascolto inter-parrocchiale “Madonna del Buon Consiglio”, Carbonia): «Quest’anno è stato fondamentale per imparare ad ascoltare. Può sembrare banale, ma non lo è. C’è una differenza abissale tra il sentire e l’ascoltare. Quando una persona non parla, non la puoi sentire, ma la puoi ascoltare, ed è incredibilmente affascinante. Non pensavo fosse possibile in un solo anno, che rimarrà impresso in me per sempre».

 

 

 

Fabio (volontario in Servizio civile presso il Centro di ascolto “Marta e Maria”, Iglesias): «Per me il Servizio civile è stata un’occasione unica per poter intraprendere un percorso di miglioramento personale che mi ha insegnato tanto, anche come gestire varie situazioni e non solo, come poter aiutare o interagire con le persone che hanno più difficoltà di noi. Mi ha permesso inoltre di conoscere delle persone splendide che anche loro nel loro piccolo mi hanno dato tanto, mi sono trovato bene con tutte le persone che mi hanno circondato sia colleghi che volontari dove ho trovato splendide amicizie e spero che possano durare anche in seguito. Mi sono messo in gioco e ho fatto un’esperienza unica, interessante e bella. Con questo ringrazio tutti, i volontari, il direttore, la segretaria la OLP e tutti coloro che si sono occupati della nostra formazione».

 

Angelo (volontario in Servizio civile presso il Centro di ascolto “Marta e Maria”, Iglesias): «Il Servizio civile universale per me è stato un’opportunità per poter conoscere in modo più profondo le difficoltà di oggi, ma anche uno strumento di crescita caratteriale e spirituale».

 

 

 

 

Ilaria Perduca

Far crescere la competenza trasversale della solidarietà. La visita degli studenti del “Baudi”

In occasione dei Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO), giovedì 22 maggio la classe 4°A del Liceo Economico Sociale Carlo Baudi di Vesme di Iglesias ha visitato alcune opere-segno della Caritas diocesana di Iglesias.

Nel mese di aprile, gli studenti, avevano avuto modo di iniziare a conoscere la realtà della Caritas diocesana, grazie a un incontro di sensibilizzazione e promozione della campagna giubilare 2025 “Cambiare la rotta. Trasformare il debito in speranza”, tenuto dal Gruppo Diocesano di Educazione alla giustizia, alla pace e alla Mondialità (GDEM), in collaborazione con il Progetto Policoro diocesano.

Dopo l’esperienza teorica tra i banchi di scuola gli studenti, accompagnati dalle loro insegnanti, hanno modo di entrare in profondità rispetto ad alcuni servizi che la Caritas diocesana mette a disposizione quotidianamente di tutta la comunità. La visita è iniziata nel terreno degli “Orti Solidali di comunità” in località Monti Santu, per proseguire all’Emporio della Solidarietà. In entrambe le visite gli operatori e i volontari hanno trasmesso ai ragazzi l’importanza e il rispetto per i beni alimentari, a volte forse scontato, e come la funzione pedagogica della Caritas non si limiti al mero assistenzialismo, ma si proponga di sostenere l’autorealizzazione in base ai talenti di ciascuno, garantendo la dignità e la gratificazione nel provvedere al proprio pane quotidiano.

Tematiche queste spiegate in maniera più approfondita durante la visita agli uffici della Caritas diocesana, dove i volontari del Centro di ascolto “Marta e Maria”, del Centro di ascolto per stranieri “Il Pozzo di Giacobbe” e del Servizio di Sostegno Economico di Iglesias hanno potuto raccontare di come servono ascoltando, rispondendo ai bisogni più urgenti e accompagnando le persone in un percorso di rinascita.

La mattinata si è conclusa con la visita alla Casa di prima accoglienza e dormitorio “Santo Stefano”, dove l’accoglienza costituisce uno stile di prossimità evangelica, in un mondo travagliato dove per tanti è difficile ricevere ristoro, sicurezza e protezione, insieme con una parola di conforto e incoraggiamento per proseguire il cammino.

In un clima di gioiosa curiosità le ragazze e i ragazzi non hanno fatto mancare le loro domande, dimostrando un interesse non solo dettato dal proprio dovere scolastico, ma da un inizio di impegno sociale emerso anche dai racconti di altri giovani, i volontari in Servizio Civile nelle strutture della Caritas diocesana, che tra pochi giorni termineranno il loro percorso e che con il loro contributo hanno stimolato la coscienza dei ragazzi dimostrando che il tempo donato agli altri non è mai perso.

Ilaria Perduca

 

Visite oculistiche gratuite per 37 persone, grazie alla collaborazione tra l’ANPVI e la Caritas diocesana di Iglesias

Martedì 13 maggio, grazie alla collaborazione tra la Caritas diocesana di Iglesias e l’ANPVI (Associazione Nazionale Privi della Vista e Ipovedenti), 37 persone segnalate dai Centri di ascolto di Iglesias (17 beneficiari) e Carbonia (20 beneficiari) hanno ricevuto gratuitamente una visita oculistica. Degli oculisti e degli ortottisti hanno effettuato uno screening su un camper attrezzato ad ambulatorio oculistico, eseguendo esami relativi alla valutazione funzionale della capacità visiva e l’osservazione biomicroscopica dei vari segmenti dell’occhio, al fine di determinare la presenza di eventuali fattori di rischio o patologie oculari.

L’iniziativa rientra nella campagna di prevenzione alle malattie oculari (progetto Uno sguardo amico), in collaborazione con la Delegazione regionale Caritas Sardegna, in modo da poter offrire uno screening gratuito alle persone più bisognose.

L’ANPVI da oltre 40 anni è impegnata sulle tematiche della prevenzione della cecità. Al fine di contribuire alla riduzione delle malattie oculari è impegnata nel promuovere giornate dedicate alle visite oculistiche gratuite nell’interesse collettivo della comunità.

Gaza: una tragedia umanitaria e una catastrofe per l’umanità

Foto di Mohammed Ibrahim su Unsplash

«Mi addolora profondamente quanto accade nella Striscia di Gaza. Cessi immediatamente il fuoco! Si presti soccorso umanitario alla stremata popolazione civile e siano liberati tutti gli ostaggi». Sono alcune delle parole pronunciate domenica 11 maggio, a conclusione del Regina Caeli, dal nuovo pontefice Leone XIV, il quale, fin dal primo saluto dalla Loggia centrale della Basilica di San Pietro, ha fatto appello alla pace del Cristo Risorto, «una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante».

Il richiamo alla situazione di Gaza ripropone incessantemente la necessità di porre rimedio urgentemente alla tragedia umanitaria che si sta consumando in quella porzione di terra, in un clima di sostanziale indifferenza da parte della comunità internazionale. Si tratta di una catastrofe per l’intera umanità, un’onta che rimarrà indelebile e di cui le future generazioni ci chiederanno conto.

Nella Striscia di Gaza – che, è bene precisare, costituisce  una exclave de iure dei Territori Palestinesi -, l’emergenza umanitaria si è ulteriormente aggravata nelle ultime settimane. Con una popolazione di oltre due milioni di persone, di cui una parte significativa composta da rifugiati, Gaza versa in condizioni disperate a causa del conflitto in corso, del blocco degli aiuti e dei conseguenti effetti sulla popolazione civile.

L’insicurezza alimentare si è tramutata ben presto in malnutrizione e inedia, divenendo fonte di enormi problemi soprattutto per le categorie più fragili, le quali dipendono per lo più dagli aiuti internazionali per la sopravvivenza.

Le infrastrutture di base sono al collasso. L’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari è limitatissimo, con fognature spesso a cielo aperto, aumentando così il rischio di epidemie. La fornitura di energia elettrica è intermittente, compromettendo il funzionamento di ospedali, impianti di desalinizzazione e altre infrastrutture vitali.

A causa dei continui bombardamenti, le strutture sanitarie sono sovraffollate, carenti di personale qualificato e di forniture mediche essenziali, essendo impedito qualsiasi accesso dall’esterno.

Le responsabilità in campo sono molteplici e complesse. Secondo il diritto internazionale, Israele, in quanto potenza occupante, ha la responsabilità di tutelare la popolazione civile di Gaza. In realtà le operazioni militari, le quali stanno provocando un elevato costo in termini di vite civili e distruzione di infrastrutture, continuano a sollevare interrogativi sulla proporzionalità e sul rispetto del diritto umanitario internazionale a cui nessuno sembra voler dare risposta.

D’altra parte anche Hamas, l’autorità de facto nella Striscia di Gaza dal 2007, con la sostituzione dei funzionari di Al-Fatah, oltre ad essere responsabile dei tragici fatti del 7 ottobre 2023, continua ancora a costituire una pesante ipoteca per il popolo palestinese, dando vita a stereotipi negativi sull’intera causa di quella popolazione.

Di fronte a questo scenario catastrofico sotto ogni profilo, non ultimo di carattere etico, è perentorio che tutte le parti in causa si assumano le proprie responsabilità per alleviare la sofferenza della popolazione civile; quella parte di popolazione che come al solito, senza volerlo, continua a pagare il prezzo più elevato di questa follia. Ciò si traduce necessariamente nella fine delle ostilità e nel rispetto inderogabile del diritto internazionale; nell’accesso agli aiuti umanitari senza ostacoli e nella ricerca di una soluzione politica giusta e duratura che affronti le cause profonde del conflitto. Come in ogni conflitto, in ballo c’è l’idea stessa di umanità.

Raffaele Callia