“Earth day”. La crisi climatica aggravata dalle guerre in corso

Foto di Amy Shamblen

L’Earth Day, la celebrazione ambientale più importante del pianeta, ha compiuto 54 anni. La cosiddetta “Giornata della Terra”, infatti, è stata istituita dalle Nazioni Unite il 22 aprile 1970 per far presente all’umanità la necessità di preservare con la dovuta attenzione le risorse naturali del pianeta. Nell’opinione comune, quella data segna simbolicamente la nascita del movimento ambientalista: un “moto” di opinione pubblica che, per quanto cresciuto nel tempo in termini sia quantitativi sia qualitativi, ancora non può dirsi in grado di intaccare in modo risolutivo le decisioni politiche su quella che, nel frattempo, è divenuta una crisi climatica globale.

È del tutto evidente come, dopo 54 anni, i problemi ambientali siano cresciuti e peggiorati sensibilmente, tanto da considerare la nostra epoca come quella in cui la vita sul nostro pianeta, proprio a causa della crisi climatica, rischia di essere compromessa per sempre. Si tratta di un terribile paradosso: proprio quando, grazie al progresso scientifico e tecnologico raggiunto fino ad ora, si potrebbe migliorare la vita per tutto il genere umano in ogni angolo del pianeta, la “casa comune” è in affanno perché sfruttata senza limiti, abusata senza alcun rispetto, contesa per l’ingordigia di pochi. Come ci ricorda Papa Francesco nell’esortazione apostolica “Laudate Deum” dello scorso ottobre, sulla crisi climatica, abbiamo tutti il dovere di «ripensare alla questione del potere umano, al suo significato e ai suoi limiti. Il nostro potere, infatti, è aumentato freneticamente in pochi decenni. Abbiamo compiuto progressi tecnologici impressionanti e sorprendenti, e non ci rendiamo conto che allo stesso tempo siamo diventati altamente pericolosi, capaci di mettere a repentaglio la vita di molti esseri e la nostra stessa sopravvivenza […]. Ci vuole lucidità e onestà per riconoscere in tempo che il nostro potere e il progresso che generiamo si stanno rivoltando contro noi stessi».

Peraltro, è sempre più stretta – anche se non avvertita da molti – l’intima connessione tra la crisi climatica e le guerre in corso. Oltre al dramma delle morti e dei feriti, della violenza sistematica sui civili; oltre alla distruzione fisica e morale di intere comunità, le guerre sono in grado di aumentare i danni sull’ambiente già provocati dall’uomo attraverso il suo modello di sviluppo. Si pensi, ad esempio, che riguardo alle emissioni di anidride carbonica – come ha rivelato un recente rapporto pubblicato dal quotidiano britannico “The Guardian” – nei soli due primi mesi di guerra a Gaza sono state generate più emissioni di gas serra di quelle prodotte da 20 dei Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico.

Una ricerca condotta da alcuni analisti statunitensi e del Regno Unito, citata recentemente da The Nation (la più antica rivista statunitense fra quelle ancora edite),  ha stabilito che circa il 99% dell’anidride carbonica emessa nei primi 60 giorni dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre è attribuibile al bombardamento aereo israeliano e all’invasione terrestre di Gaza, mentre quasi la metà dell’emissione totale di CO2 della guerra proviene dagli aerei cargo statunitensi che trasportano forniture militari in Israele.

Non solo. Ad aumentare l’inquinamento è anche l’accresciuto attivismo delle industrie proprio a causa delle guerre in corso e non solo di quelle belliche. Le guerre arricchiscono proprio le industrie più inquinanti e rischiano di provocare dei cambiamenti di strategia sul piano degli investimenti in favore delle energie rinnovabili. In altre parole, le “emissioni militari” incidono in modo rilevante sul totale delle emissioni a livello globale.

Tutto ciò ci obbliga a considerare come strettamente interconnessi i temi ambientali con quelli legati alla pace, così da mettere sotto uno stesso ombrello i termini inglesi war and warming, guerra e riscaldamento. Rispetto a ciò, il magistero della Chiesa non cessa di ricordare come i temi dell’ecologia integrale siano da accogliere come un tutt’uno, in cui ricomprendere pace, giustizia e salvaguardia del creato, come ci ha ricordato anni fa Papa Francesco nella enciclica “Laudato si’”, richiamando alla mente quanto scritto a suo tempo da due suoi predecessori divenuti santi, vale a dire San Giovanni XXIII e San Paolo VI: «Otto anni dopo la Pacem in terris, nel 1971, il beato Papa Paolo VI si riferì alla problematica ecologica, presentandola come una crisi che è «una conseguenza drammatica» dell’attività incontrollata dell’essere umano: «Attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, egli rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione». Parlò anche alla FAO della possibilità, «sotto l’effetto di contraccolpi della civiltà industriale, di […] una vera catastrofe ecologica», sottolineando «l’urgenza e la necessità di un mutamento radicale nella condotta dell’umanità», perché «i progressi scientifici più straordinari, le prodezze tecniche più strabilianti, la crescita economica più prodigiosa, se non sono congiunte ad un autentico progresso sociale e morale, si rivolgono, in definitiva, contro l’uomo».

Raffaele Callia