La Caritas di Iglesias al 44° Convegno nazionale delle Caritas diocesane

Anche la Caritas di Iglesias ha preso parte al 44° Convegno nazionale delle Caritas diocesane, tenutosi a Grado dall’8 all’11 aprile 2024, dal titolo “Confini, zone di contatto e non di separazione”. L’evento ha visto la partecipazione complessiva di 613 membri (di cui 138 giovani), tra direttori e componenti di équipe provenienti da 182 Caritas diocesane di tutta Italia. Dalla Sardegna hanno preso parte in tutto 34 partecipanti, provenienti da tutte e dieci le diocesi dell’Isola; 4 i partecipanti dalla Caritas diocesana di Iglesias. A seguire alcuni momenti raccontati dai partecipanti della diocesi di Iglesias.

 

 

 

I confini non-confini tra Italia e Slovenia, dai racconti dei giovani di Nova Gorica

di Ilaria Perduca

In una sua celebre canzone Francesca Michielin canta: “Nessun grado di separazione, nessun tipo di esitazione, non c’è più nessuna divisione fra di noi. Siamo una sola direzione in questo universo che si muove non c’è nessun grado di separazione”. Parole che sembrano fare da sottofondo al racconto di una “separazione”, di un confine che invece, esiste e che ha lavorato tanto per un sano equilibrio.

Di questa esperienza, di questo “grado di separazione” alcuni giovani hanno voluto condividere le storie nella chiesa del Cristo Redentore, concattedrale di Nova Gorica, con i convegnisti che nel pomeriggio del 10 aprile hanno oltrepassato anche i “confini” geografici posando piede in Slovenia.

La storia di Gorizia inizia nel 1947. In questo luogo si stabilì che il confine tra l’Italia e la neonata Jugoslavia si sarebbe delineato proprio lungo la città, separando il centro storico, rimasto in Italia, dalla stazione ferroviaria Transalpina e dalle zone di periferia, passati alla Jugoslavia. Per dividere i due paesi venne costruito “il muro di Gorizia”, probabilmente meno ricordato del muro di Berlino ma non per questo di meno impatto dal punto di vista del contesto storico. Per volere di Tito venne poi costruita una città in Jugoslavia, Nova Gorica. Le frontiere resteranno chiuse con una concessione che venne fatta nella storica giornata di domenica 13 agosto 1950, la cosiddetta “domenica delle scope”. In occasione dell’anno santo, infatti, Tito decise di concedere agli abitanti di Nova Gorica di incontrare i loro cari a Gorizia e fare acquisti personali, per poi tornare in giornata. Nova Gorica è in costruzione, mancano anche tanti beni di prima necessità. Mancano persino delle semplici scope di saggina, dalle quali questa famosa giornata prenderà il nome. Questa giornata rimarrà nella storia di questi due popoli che la geopolitica voleva separati.

Negli anni ci fu una graduale apertura territoriale che subì una vera svolta anzitutto nel 2004, quando la Slovenia entrò a far parte dell’Unione Europea, e poi nel 2007, quando aderì all’area Schengen. Per la prima volta il valico rimase senza controlli e la recinzione che separava a metà la piazza transalpina fu abbattuto.

La naturalezza dei racconti di vita usciti dai cuori di questi giovani testimoni e le vicende delle loro case che sorgono ad appena 50 metri dal confine, hanno spiazzato i convegnisti, forse più di qualsiasi relazione ascoltata fino a quel momento nei primi due giorni. Sono storie che attingono a un passato neanche tanto lontano: sono i ricordi dei nonni che parlano di abiti da sposa cuciti e indossati per essere recapitati oltre i posti di blocco; ricordi che arrivano al presente e che si intrecciano con le vicende di Alessandro (conosciuto anche come Sasha) e del suo impegno a voler parlare due lingue per poter comunicare con amici di lingua italiana e slava. A ricordarci che è possibile stabilire dei confini con gentilezza, perché avere dei buoni confini vuol dire riconoscersi per ciò che si è e riconoscere l’altro per ciò che è.

 

 

 

 

 

 

Diventare grandi nella piccolezza

di Emanuela Frau

Nell’ambito dell’assemblea tematica dal titolo “Nei margini la piccolezza evangelica”, suor Daniela Chiara, Piccola Sorella di Gesù, racconta la propria esperienza di vita, ricordando con affetto il fondatore della comunità, San Charles de Foucauld, il suo carisma, le opere e la figura femminile che gli stette accanto: Magdeleine Hutin. Magdeleine fu la prima Piccola Sorella, fondatrice della Fraternità nel 1939: ebbe una vita centrata su Gesù, vissuta a contatto con persone di fede musulmana e testimoniando l’amore di Dio per ogni essere umano. In una semplice quotidianità le Piccole Sorelle condividono le loro attività con i più fragili, dimostrando un amore preferenziale per i più piccoli; creando relazioni familiari e vivendo anche una vita contemplativa.

Grazie alla Fraternità, suor Daniela Chiara ha avuto profonde esperienze con i Sinti emiliani, con i Rom romeni nella città di Bari, per 15 anni in Niger con il popolo Tebu (a maggioranza musulmana), tutt’oggi a Torino con le donne vittime della tratta a San Salvario. Nella sua riflessione sul confine sottolinea che quando si parla di margine significa che esiste un centro da qualche parte, a cui è stato dato un peso, una certa importanza, a cui le cose sono attirate; mentre il margine, all’opposto, è ciò che apparentemente è privo di bellezza e di valore. Spesso sono proprio le persone che decidono ciò che è centrale o marginale nella loro vita.

Gesù ha scelto di mettersi ai margini; l’ha fatto con i lebbrosi, con i ciechi, con i reietti della società, spostando il centro; toccandoli Lui passa il confine e ci insegna quale strada percorrere per sconfinare nella nostra esistenza. Nell’accorgersi dell’umanità sofferente, inizialmente suor Daniela Chiara non voleva guardarla, non ci riusciva; ma rendendosi conto che stava relegando sé stessa ai margini, ha iniziato a spostare le persone più fragili e bisognose al centro, in mezzo al suo cuore, cambiando così la prospettiva e comprendendo che il fastidio iniziale si era ormai trasformato in compassione.

Per suor Daniela Chiara il margine non è solo questione di luogo ma è quel confine, quella soglia che permette o non permette un incontro con l’altro. Nelle loro comunità, sono riuscite a creare un legame alla pari, fare il lavoro che fa la gente del luogo che le ospita; non vivendo come sorelle maggiori ma come sorelle piccole, figlie di uno stesso Padre, quindi sorelle di Gesù e di tutti, esprimendo la stessa piccolezza presente nel Bambin Gesù.

 

 

 

 

 

 

 

Confini: luoghi di incontro e di convivenza delle differenze

di Aldo Maringiò

Il confine è spesso uno spazio di incontro, di avvicinamento; ma tante volte è anche spazio di scontro. Le stesse montagne che fanno da cornice ai luoghi del convegno sono state teatro di guerre e di violenza. Oggi, fortunatamente, sono diventate luoghi di riflessione, di incontro e dopo lunghi anni di pacificazione dai quali trarre degli insegnamenti. Tutto ciò ci deve far meditare su cosa succede quando arriva da noi qualcuno che non conosciamo: come ci posizioniamo nei suoi confronti, quali sono le strategie che attuiamo per “segnare” il nostro confine. Molto spesso dell’altro non conosciamo niente, specie se viene da un altro Paese o persino da un altro continente.

Nell’ambito dell’area tematica “Confini: luoghi di incontro e di convivenza delle differenze”, il professor Giovanni Grandi, docente di filosofia morale, ci ha fatto riflettere sui confini sotto l’aspetto sociale ed etico. Siamo stati guidati a capire quanto le idee, i gesti, i comportamenti possono creare dei conflitti, e generare così dei confini; quanto siamo disposti a “perdere qualcosa di noi” per poter vivere in armonia con il diverso mantenendo il confine proprio di ciascuno e allo stesso tempo divenendo arricchimento esperienziale.

Il prof. Grandi ci ha aiutato a confrontarci con la molteplicità dei confini con i quali tutti i giorni siamo chiamati a  confrontarci. È la paura dell’altro, dello sconosciuto, dell’inedito che ci spinge naturalmente a tracciare dei confini anzitutto interiori prim’ancora che esteriori. I confini possono segnare non solo una fine ma anche un nuovo inizio. Nei luoghi in cui il convegno si è svolto tanti migranti, dopo aver attraversato la rotta balcanica ed aver affrontato tante difficoltà, privazioni, umiliazioni, transitano per raggiungere il cuore di quell’Europa in cui sperano di costruire un futuro migliore, ricongiungersi con i familiari già residenti o in cerca di una vita senza guerre, ricatti, persecuzioni politiche, fame e quant’altro possa umiliare un essere umano.

Quanto la comunicazione può aiutare ad abbattere i confini o può invece contribuire a crearne di più impermeabili fino a generare conflitto? La risposta è che la comunicazione, ogni forma di comunicazione, può avvicinare o allontanare di più l’altro. E per noi operatori Caritas questo è importante soprattutto nella fase di ascolto di chi viene nelle nostre opere segno e in particolare nei Centri di ascolto a chiedere aiuto. L’altro quindi deve diventare un’occasione di incontro, di convivenza e non di divisione.

 

 

 

 

 

 

 

Chiesa di minoranza, in cammino, capace di sconfinare

di Raffaele Callia

Il mese scorso la guerra in Siria ha compiuto 13 anni, senza far intravedere una soluzione e dopo aver lasciato morti e distruzione alle spalle, recentemente accresciuti anche a causa di un terremoto che ha coinvolto, oltre alla Siria, anche la Turchia. Ai lavori del 44° Convegno nazionale delle Caritas diocesane ha preso parte anche il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico a Damasco, capitale della Siria. In questo Paese, dove gli Atti degli apostoli ci ricordano che per la prima volta i fedeli di Gesù Cristo si chiamarono cristiani, a causa della guerra proprio i cristiani sono passati da circa 2 milioni a circa 500 mila. Nella sola Aleppo, in particolare, si è passati da circa 150.000 cristiani a meno di 30.000. Un calo dovuto alla guerra e al fatto che le minoranze cristiane sono l’anello debole in un contesto a prevalenza musulmana.

Le cifre di morte e distruzione ricordate dal cardinal Zenari sono quelle di un conflitto che ha portato via la vita a 29.000 minori. Solo nel 2023 sono morte più di 4.000 persone, di cui oltre 300 sono bambini (1.889 in tutto i civili). Coinvolgendo eserciti, milizie e jihadisti stranieri, ad oggi il conflitto ha ucciso più di 500.000 persone dall’inizio della guerra. Sono circa 12 milioni le persone in fuga (di cui 8 milioni di sfollati, ovverosia di quanti sono rimasti all’interno dei confini del Paese). Sono 100.000 le persone scomparse, di cui 5 ecclesiastici (è nota la vicenda del gesuita Paolo Dall’Oglio).

Il dramma siriano ci ricorda il dramma della più grave catastrofe umanitaria della storia recente. Un conflitto che ha messo sul lastrico il 90% della popolazione: 16 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria e la soluzione politica non è ancora in vista. La Siria è dimenticata: le notizie non ci sono più anche a causa della guerra in Ucraina e a Gaza.  Va anche ricordato che in Siria operano, in vario modo, le forze armate di 5 Paesi stranieri (Russia, Usa, Turchia, Iran e Israele). Un terzo della geografia della Siria non è sotto controllo siriano. Ancora oggi, secondo l’ONU, partono circa 500 persone ogni giorno, fra cui giovani, medici, neolaureati, ecc. Attualmente, due terzi del personale medico e infermieristico è già emigrato, mentre metà degli ospedali sono già stati distrutti o resi inagibili. Si tratta di un dramma sociale e di futuro all’interno del dramma più generale che si consuma da 13 anni.

In tutto questo, la presenza della Chiesa (una presenza di minoranza) rappresenta un importante segnale di speranza operosa, soprattutto in un momento in cui i riflettori dei media sulla Siria sembrerebbero essersi spenti. Anche la Chiesa italiana ha deciso di restare accanto alla popolazione siriana, condividendo gioie e speranze, tristezze e coraggio. Una Chiesa in ascolto di Dio e umilmente impegnata nel servizio.