Dare credito alla speranza. Il Servizio di sostegno economico racconta un anno di esperienza

Il 2020 è stato un anno segnato dalla pandemia, nemico sconosciuto, che ha stravolto la vita di tutto il mondo. Sarà ricordato come l’anno del Coronavirus, con un forte impatto sulle sofferenze per la perdita dei propri cari, sul mondo del lavoro, sulla scuola e, soprattutto, sulle famiglie.

Ha generato una moltitudine di nuovi poveri, di persone che nel breve tempo hanno perso tutto, in primis il lavoro e quindi l’impossibilità di far fronte alle necessità primarie e agli impegni assunti nei periodi precedenti la pandemia. Davanti a uno scenario apocalittico il mondo del volontariato, a tutti i livelli, ha sentito la necessità di stare vicino a quei fratelli che, con tanta umiltà, hanno chiesto un aiuto in termini di affetto e non solo in termini economici.

La Caritas diocesana, di cui ci onoriamo di farne parte attiva, attraverso i vari organismi che la compongono, ha, purtroppo, trovato terreno fertile perché l’amore verso le persone più fragili predicato dal Nostro Signore Gesù Cristo, attecchisse in opere di bene e di solidarietà.  Nell’arco di questo disastroso anno, attraverso il Centro di ascolto “Marta e Maria” e il gruppo dei collaboratori del Servizio di Sostegno Economico di Iglesias, si è creata una catena di condivisione di tutte quelle problematiche esposte dai richiedenti.  Abbiamo purtroppo constatato che una buona parte delle richieste di aiuti sono legate ad amministrazioni poco accorte e mal gestite. Padri di famiglia e non che, preoccupati per le instabili condizioni economiche, si affidano a Finanziarie, le quali, con tassi che rasento l’usura, rilasciano prestiti e carte di credito con piani di ammortamento e quote di interessi interminabili.

Molto spesso si avvicinano a noi titolari di attività commerciali che, nel periodo di completo lockdown, hanno dovuto spendere i pochi risparmi accumulati nel tempo, trovandosi con diversi fitti, bollette e imposte varie da pagare. Il compito nostro è stato quello di accoglierli amorevolmente, forti della nostra esperienza lavorativa (nel settore bancario), offrire loro consulenza e incoraggiamento e provare a risolvere del tutto o almeno parzialmente i problemi esposti.

Senza ombra di dubbio, la nostra esperienza di volontariato, in questo anno di pandemia, si è rafforzata ulteriormente rendendoci consapevoli di aver sempre interpretato l’azione amorevole di Dio verso le persone più fragili. La nostra speranza è rivolta a tutti coloro che hanno nel cuore la volontà mai realizzata di rafforzare l’azione del volontariato.

Pierpaolo Obino
Servizio di sostegno economico di Iglesias

La Caritas diocesana di Iglesias piange la scomparsa di Fabia Congia

Con grandissima tristezza e con gratitudine profonda a Dio per il dono della sua vita, la Caritas diocesana di Iglesias rende partecipi che nella notte tra il 28 e il 29 luglio 2021 è stata accolta nella Casa del Padre la cara Fabia Congia.

Con la Caritas Fabia ha dato testimonianza di impegno generoso e molti degli operatori – sia a livello diocesano che regionale – ne ricordano il sorriso e la competenza, a cominciare da quanti l’hanno conosciuta in occasione dell’esperienza impegnativa e duratura di ascolto e accompagnamento in favore delle famiglie terremotate in Abruzzo (in particolare a Barisciano); esperienza che ha prodotto frutti generosi di relazione, amicizia e coinvolgimento di tante persone che oggi piangono la sua prematura partenza (avrebbe compiuto 44 anni il prossimo 2 agosto).

Nel Sulcis-Iglesiente il suo impegno è stato particolarmente apprezzato sia agli inizi del 2000, quando fu costituito il Centro per l’immigrazione dell’allora Provincia di Carbonia Iglesias, divenendone lei stessa coordinatrice, sia – recentemente – nell’ambito della progettazione socio-pastorale della Caritas diocesana di Iglesias.

Sono tanti i motivi che tengono viva la memoria nel segno della gratitudine profonda per il dono della sua vita: uno di questi è il suo credere nel valore della pace e della mediazione nonviolenta, come attesta la sua esperienza di studio che l’ha portata fino in Nepal. La nostra cara Fabia ha combattuto tante buone battaglie fino all’ultimo, fino a quando le forze le hanno permesso di dare tutta sé stessa, con senso di responsabilità e generosità e con un sorriso che continueremo a serbare nel cuore come dono tra i più preziosi.

La Caritas diocesana di Iglesias

Incendi in Sardegna. La diocesi di Iglesias vicina alle comunità colpite

La diocesi di Iglesias, con il suo Vescovo Giovanni Paolo, esprime la propria vicinanza alle popolazioni coinvolte negli incendi di questi giorni, in particolare di sabato 24 e domenica 25 luglio. Ad essere colpita più duramente è la diocesi di Alghero-Bosa, anche se le fiamme hanno messo alla prova anche le comunità diocesane di Ales-Terralba (in particolare l’Alta Marmilla), Lanusei (Arzana), Oristano e in parte Sassari.

I danni più gravi si sono registrati a Cuglieri e Scano di Montiferro. Danni importanti anche a Santu Lussurgiu, Tresnuraghes, Sennariolo e in altre località del territorio. Lo scenario che appare a seguito delle fiamme è spettrale: alberi ridotti in cenere, boschi cresciuti nel tempo e bruciati in poche ore. Ai danni ambientali si aggiungono pure quelli che ricadono sul mondo produttivo, spesso costituito da un arcipelago di realtà familiari già messe a dura prova dalla pandemia, costruite con la fatica di anni di duro lavoro.

Ancora non è possibile effettuare una stima precisa dei danni materiali provocati dagli incendi, che appaiono comunque ingenti: aziende agricole, oleifici, birrifici e altre attività produttive andate in fumo. Sono circa 20mila gli ettari di boschi di leccio, sugherete, oliveti, pascoli e colture varie distrutti in poco tempo, oltre a un grosso quantitativo di bestiame andato perduto con danni economici assai consistenti.

La Chiesa tutta in Sardegna non è rimasta indifferente. I Vescovi, in un comunicato stampa pubblicato lunedì 26 luglio, esprimono vicinanza «alle popolazioni e tristezza nel cuore, [lasciando trasparire] un senso di sgomento infinito nel vedere ancora una volta, a causa degli incendi, la nostra gente soffrire e il nostro territorio bruciare». Gli stessi pastori, oltre ad auspicare che vengano accertate le responsabilità, segnalano quanto «sia decisiva una formazione che, grazie al rispetto della creazione, permetta di custodire il mondo che ci circonda come un giardino, secondo il progetto del Dio creatore». Inoltre, ringraziano «tutti coloro che si stanno adoperando per aiutare le popolazioni colpite: forze dell’ordine e dell’antincendio, forestali e volontari [e incoraggiano] le forze politiche ad affrontare l’emergenza con misure adeguate, scegliendo anche norme legislative che agevolino la prevenzione e scoraggino eventuali attentatori».

La Chiesa diocesana di Alghero-Bosa, in un proprio comunicato stampa, fa riferimento a migliaia di sfollati ed ettari di territorio andati perduti: tante le famiglie «che hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni per mettersi in salvo dall’avanzare delle fiamme che, in alcuni casi, hanno completamente distrutto i sacrifici di tutta una vita. Stessa situazione per le aziende agricole e per gli allevamenti di bestiame, inceneriti dal fuoco. Da subito si è messa in moto la macchina degli aiuti volontari che ha contribuito, nell’emergenza, ad offrire sicurezza soprattutto alle persone che si trovavano in situazione di estrema necessità».

Anche la Chiesa diocesana di Iglesias non può restare indifferente e fa appello affinché ognuno faccia la propria parte.

Le collette, personali e comunitarie (anche a livello parrocchiale), potranno essere versate sul seguente conto:

DIOCESI DI IGLESIAS – CARITAS DIOCESANA
Codice IBAN: IT 36 M 01015 43910 000000016779
Causale: “Emergenza incendi Sardegna”

Successivamente, la Caritas diocesana inoltrerà le cifre raccolte alla diocesi di Alghero-Bosa.

Haiti, nel vuoto di potere e di speranza

Per chi ha avuto la dolorosa fortuna di visitare quel Paese e assistere alla sua inesprimibile sofferenza, ogni notizia proveniente da Haiti è come un colpo al cuore. In quel luogo di una bellezza straordinaria convivono allo stesso tempo il sorriso spensierato e l’indolenza della popolazione locale, la povertà più dura e un concentrato di catastrofi naturali, tra uragani e terremoti, e un sistema politico così instabile e corrotto da togliere ogni speranza. Una sorta di ossimoro esistenziale così ben raccontato dal celebre autore haitiano Dany Laferrière, che parla del proprio Paese come di un marchingegno mortale tra paradiso e inferno.

Il terribile terremoto del 2010

Fu il terribile terremoto del 2010, che provocò la morte di oltre 230.000 persone, a far scaturire un’azione di solidarietà internazionale senza precedenti, con un impegno significativo anche da parte della popolazione italiana.

La Conferenza Episcopale Italiana, infatti, promosse una colletta straordinaria pochi giorni dopo il sisma e furono diverse le realtà Caritas, tra quelle diocesane, le Delegazioni regionali e la stessa Caritas Italiana, a rinforzare l’aiuto attraverso fondi e progetti mirati (qui disponibile il reportage delle iniziative, 3 anni dopo il terremoto).

Fece parte di questa rete anche la Delegazione regionale Caritas della Sardegna, la quale scelse di unire tutte le offerte pervenute dalle diocesi sarde in unico progetto regionale. I sardi furono generosi, affidando alla Caritas Italiana 623.509,00 euro: una cifra che consentì alla direzione delle Suore di Maria Ausiliatrice a Croix des Bouquets, periferia della capitale Port-au-Prince (dove sono avvenuti diversi sequestri di persona in questi ultimi mesi) la ricostruzione di una scuola, inaugurata ufficialmente nel marzo del 2013. Dopo il progetto della ricostruzione della scuola, grazie alla generosità della popolazione sarda venne realizzato anche un forno comunitario, in grado di soddisfare la popolazione docente e studentesca della nuova scuola.

Il degrado della capitale

Port-au-Prince è una realtà sociale che vive in un’altra dimensione rispetto al resto del Paese. Con una popolazione di quasi 1 milione di abitanti, considerando anche l’hinterland, ai visitatori impreparati appare come un luogo caotico, in condizioni di precarietà estrema e promiscuità di ogni genere. Città povera e violenta: il giorno prima del mio arrivo per conto della Delegazione regionale Caritas della Sardegna, nel settembre 2016 (qui disponibile la cronaca della visita), nei pressi della cattedrale fu uccisa – e poi derubata – Suor Isabel Sola Macas, originaria di Barcellona; aveva 51 anni e apparteneva alla Congregazione di Gesù e Maria. La vita, a Port-au-Prince, sembrerebbe valere meno di niente: all’epoca della mia visista, ogni giovedì un missionario canadese visitava una discarica nei pressi della città, per cercare i cadaveri di quanti venivano frettolosamente abbandonati tra i rifiuti; il suo obiettivo era semplicemente quello di garantire una degna sepoltura a quei poveri resti umani.

Le Suore salesiane, come molte altre realtà della Chiesa cattolica presenti ad Haiti, sfidano quotidianamente il degrado, l’insicurezza e la disperazione che le varie bidonville presenti nella capitale offrono a vista d’occhio. Sono presenti anche a Cité Soleil, uno dei sobborghi più violenti di Port-au-Prince. Anche loro possono operare grazie alla solidarietà internazionale: aiuti che hanno bisogno di essere accompagnati adeguatamente e che, oltre a realizzare progetti, si spera possano mettere in moto dei processi di reale cambiamento, per non ingenerare una cultura che crei dipendenza.

Una solidarietà globale che, nonostante tutto, non è riuscita a divellere dal profondo le radici contradditorie e problematiche che impediscono ancora oggi, a quella popolazione, di vivere una vita degna di essere vissuta. La pandemia da Covid-19 non ha fatto altro che aggravare le già precarie condizioni di salute della popolazione locale, abbondantemente compromesse da una situazione igienica catastrofica sotto ogni profilo, determinando un ulteriore peggioramento della povertà assoluta.

Il vuoto di potere dopo l’omicidio del presidente della Repubblica

L’assassinio del presidente della Repubblica haitiana, avvenuto nei giorni scorsi, non può che accrescere la complessità di questo quadro caotico, contrassegnato negli ultimi mesi dalle notizie di frequenti sequestri di persona. “Intorno all’una della notte tra il 6 e il 7 luglio 2021 un gruppo di persone non identificate, tra cui alcune che parlavano inglese e spagnolo, ha attaccato la residenza privata del presidente della repubblica, uccidendolo”. Con queste parole il primo ministro haitiano uscente, Claude Joseph, ha dato la notizia dell’uccisione del presidente Jovenel Moïse a Port-au-Prince, 53 anni, e del ferimento di sua moglie, Martine Marie Etienne Joseph, poi trasferita in Florida per le cure necessarie. Nei giorni seguenti le forze di polizia hanno rivelato che il commando che ha ucciso il presidente era composto da 28 mercenari, di cui 26 originari della Colombia e 2 statunitensi (uno dei quali di origini haitiane).

Restano ancora poco chiare le ragioni che hanno determinato quest’azione violenta, tant’è che le spiegazioni oscillano tra l’omicidio politico, nella prospettiva di un colpo di Stato, e un regolamento di conti di matrice criminale tra gang rivali. Di sicuro, come da più parti sottolineano gli esperti di politica internazionale, niente di quanto sta accadendo ad Haiti spinge a essere ottimisti sul futuro di quel Paese.

Di un regolamento di conti parla chiaramente la folta schiera, in seno alla società civile haitiana, di oppositori politici dell’oramai defunto presidente. Le vicende legate allo scandalo riguardante l’importazione di petrolio dal Venezuela, il traffico di droga proveniente dalla Colombia e diretto (tramite Haiti) verso gli Stati Uniti, la corruzione come modus operandi all’interno delle istituzioni e delle forze di polizia, l’imperversare di gang armate dedite ai sequestri e in affari con i narcos; tutto questo, e altro ancora, hanno proiettato un’ombra ingombrante sul mandato presidenziale di Jovenel Moïse, il quale era stato eletto nell’ottobre del 2015 ma l’esito era stato annullato per presunte irregolarità, per poi essere comunque eletto l’anno seguente.

Ora, dopo la sua morte violenta, la paura di un vuoto improvviso di potere getta ancora di più nel caos questo sfortunato Paese. La sua popolazione merita certamente un destino diverso da quello cui si assiste da troppo tempo. Un destino doloroso e non del tutto spiegabile, come ha scritto il già citato Dany Laferrière: “tutte le mattine ci si imbatte in nuovi morti ammazzati (il sangue caldo ha un odore che non si scorda più) nelle viuzze anguste e fangose. E le notti sono scandite da urla e colpi d’arma da fuoco, e l’indomani viene annunciato un nuovo capo che ricomincia con le stesse promesse”.

Raffaele Callia

50° di Caritas Italiana. Le testimonianze della delegazione della diocesi di Iglesias

Tra le 218 Caritas diocesane presenti a Roma, con le proprie piccole delegazioni, per le celebrazioni del giubileo della Caritas Italiana, vi era anche quella di Iglesias. Oltre al direttore della Caritas diocesana, a rappresentare l’équipe iglesiente erano presenti anche quattro operatrici. Dal loro racconto si colgono la ricchezza delle riflessioni proposte dal cardinale Tagle, dal presidente di Caritas Italiana e alcune tessere del composito mosaico delle esperienze maturate nel territorio nazionale, compresa quella sarda.

 

“L’Amore è un modo di agire (di Sara Concas)

Nei pressi della sede storica di Caritas Italiana (in Viale Baldelli), nella Basilica di San Paolo fuori le mura, venerdì pomeriggio si è tenuto un momento di preghiera come inizio delle celebrazioni per il 50° anniversario della nascita di Caritas Italiana, guidato dall’attuale presidente Mons. Carlo Roberto Maria Redaelli e dal Cardinale Luis Antonio Tagle, presidente di Caritas Internationalis. Partendo dall’Inno alla carità di san Paolo, Tagle ha ricordato l’importanza del dono e del servizio. Sono tre i punti sui quali il cardinal Tagle chiede di orientare (e continuare) il nostro servizio: lavorare per il bene comune: i doni dello Spirito non devono diventare un’occasione per sentirsi superiori agli altri o per realizzare i propri interessi personali. Essi, infatti, non sono conquiste o proprietà, ma devono essere messi a frutto per il bene comune. Il dono è più prezioso del profitto. Per esporre il secondo punto Mons. Tagle ci ha raccontato la storia di un’operatrice di Caritas Libano: un giorno, in Siria, mentre andava a un convegno in taxi si vide rifiutato il compenso della corsa dal guidatore. Non voleva prender soldi dalla Caritas, le disse. Alla richiesta di spiegazioni, perché la donna non si era presentata come operatrice della Caritas, il tassista le rispose che tre anni prima era in un centro di detenzione perché irregolare. Stava male, nessuno gli dava le medicine. Gliele diede proprio quella donna e lui per la prima volta quella notte dormì e il suo volto gli rimase impresso. Per quello l’aveva riconosciuta e voleva esprimere come poteva la sua riconoscenza. Infine – terzo punto – Mons. Tagle ha invitato alla sensibilità, quella che deriva dall’Amore e che ci rende “pazienti e comprensivi, rispettosi e umili” nei confronti di chi soffre. “La sofferenza ci rende fratelli”, aggiunge il Cardinale Tagle, ricordando anche i tanti operatori della Caritas che si sono prodigati in tempo di pandemia da Covid-19, periodo nel quale la testimonianza d’amore non è venuta meno ma si è adattata al nuovo tempo e a nuovi bisogni.

 

 

“Cuore e Vangelo” (di Aurora Filippi)

Sabato 26 giugno 2021 presso l’aula Paolo VI in Vaticano, 226 Diocesi italiane si sono radunate, spinte da un unico obiettivo, ossia, l’amore verso il prossimo, tramite l’ascolto, l’accoglienza e l’aiuto. Sono state proposte 16 testimonianze di vita, dai vari contesti regionali, da Nord a Sud. Tutte meravigliose, così come l’esperienza di Alli Adesola Adewale (della Caritas di Gaeta), il quale da un’esperienza lavorativa negativa è riuscito, grazie alla Caritas, a rialzarsi e ora sa che: “se mantiene viva la speranza, le cose belle accadono”. La seconda esperienza molto particolare e toccante è stata quella di Maria Agata Antonucci, della Caritas dell’Aquila. Si tratta della tragedia avvenuta la notte del 6 aprile 2009, in cui diverse persone hanno vissuto l’esperienza del terremoto. Esperienza che resterà per sempre impressa nella loro mente e nella memoria di amici, parenti che purtroppo quella notte o di lì a poco persero i loro cari. Molti di loro proprio in quella circostanza hanno scoperto la Caritas. Da quel momento per loro è iniziato un nuovo cammino, una nuova fonte di speranza e fiducia, un legame verso gli operatori che hanno aiutato coloro che in 32 secondi hanno perso tutto, lasciando solo le lacrime a spezzare quel silenzio assordante. Un’altra bella testimonianza è stata quella di Valentina Distefano, della Caritas di Ragusa. Dal suo racconto è emersa l’idea di carità, amore, ascolto, testimonianza del Vangelo e accoglienza. Un racconto fatto di nomi: Cettina, Concetta, Ferial, Vita, Arturo, Karol, Marcello, Natale. Il vero spirito della Caritas è far sentire le persone a casa loro, in famiglia. L’équipe conosce la loro storia, le patologie, le loro fragilità e risorse. Per loro diventa un luogo sicuro; una casa a 360°, un luogo dove non esistono giudizi e distinzioni, una casa dove si è tutti uguali. Niente di tutto ciò che abbiamo ascoltato in questi 2 giorni potrà funzionare senza un cuore sincero; ed è questo che un operatore Caritas deve tenere sempre presente: cuore e Vangelo.

 

“Caritas è accoglienza” (di Aurora Fonnesu)

Tra le esperienze raccontate dalle Caritas diocesane d’Italia, in attesa dell’udienza col Papa, quelle che mi hanno colpita maggiormente sono due. Esse, a mio parere, rappresentano alcuni dei pilastri della Caritas e racchiudono anche le tre vie indicateci dal Santo Padre (della carità, del Vangelo e della creatività): lo stile della carità raccontatoci dalla delegazione Liguria e l’innovazione della delegazione dell’Emilia Romagna. Dalla Caritas di Ventimiglia-Sanremo abbiamo appreso come l’accoglienza e l’ascolto degli stranieri, in transito verso la Francia, sia diventata un’occasione di arricchimento e scambio per tutta la comunità; inoltre abbiamo imparato come la collaborazione con associazioni e volontari abbia dato frutto all’accoglienza di 13.000 persone. Un’esperienza durata oltre un anno, in cui persone di fedi diverse si sono incontrate e messe a disposizione per accogliere il fratello e la sorella in difficoltà e aiutarli a recuperare la dignità che in alcuni casi avevano perduto. È stato per loro: “un dono che ci obbliga a vivere la nostra fede in Cristo nell’incontro incondizionato con l’altro che bussa alla nostra porta”. L’innovazione, per come presentata dalla Delegazione dell’Emilia Romagna, prende ispirazione sia dalle circostanze vissute nel territorio che dalla Parola del Signore. Si sono lasciati ispirare dal racconto dell’accoglienza che Abramo e Sara offrono a tre viandanti, alle Querce di Mamre, per dare risposta all’emergenza abitativa che colpiva le persone più fragili, anche durante la pandemia. Da qui nasce l’idea di affittare una struttura alberghiera e trasformarla nella locanda della comunità, la “Locanda tre Angeli”. Questa testimonianza è un invito offerto a tutti per riflettere: su quale accoglienza offriamo a chi arriva all’improvviso, ospite inatteso, “nell’ora più fredda del giorno”; su quali desideri portiamo nel cuore mentre accogliamo chi non aspettavamo. Infine, su quale “buona notizia” attendiamo.

 

“Insieme per la terra” (di Emanuela Frau)

Nelle parole di Andrea Marcello, operatore della Caritas diocesana di Cagliari, emerge come dall’esperienza delle Caritas diocesane della Sardegna l’attenzione e la cura nei confronti dell’ambiente vengano affrontate con sempre maggior convinzione nelle tante occasioni di riflessione sui temi della salvaguardia del creato e dell’impatto ambientale; tematiche già incisivamente sostenute da Papa Francesco, nella enciclica Laudato si’. Cogliendo il suo invito ad essere fratelli di una Chiesa in uscita, nello svolgimento quotidiano del proprio servizio, gli operatori delle Caritas sarde si dicono consapevoli della necessità di aprirsi agli altri, condividendo insieme la stessa cura per la casa comune, fonte dei prodotti alimentari, e la promozione di uno sviluppo sostenibile delle comunità, inteso sia economicamente che ecologicamente.  All’indomani della 48esima Settimana Sociale dei Cattolici Italiani (2017), sul tema Il lavoro che vogliamo, libero, creativo, partecipativo e solidale, è nata nella diocesi di Cagliari l’Impresa Sociale “Lavoro Insieme”. Con l’obiettivo di sostenere persone e territori particolarmente fragili, la nuova impresa ha voluto avviare il “Progetto Gerrei”, fortemente motivata a potenziare i prodotti tipici locali, “recuperare terreni abbandonati, favorire l’occupazione di fasce deboli e remunerare in maniera equa il lavoro di tutte le componenti della filiera stessa”. Un altro esempio di concreta tutela del territorio è espresso attraverso la realizzazione  dell’idea di “Terre Ritrovate”, un’intuizione di e-commerce etico per  valorizzare le buone prassi ancora presenti e per avvicinare produttori e consumatori. Nella stessa prospettiva di creare un’economia sostenibile, basata su un lavoro libero e dignitoso, si inserisce la riflessione di buona parte della società civile sarda (e non solo) che da anni si batte per una riconversione delle produzioni belliche, in particolare nel Sulcis-Iglesiente. Alcuni progetti di “Orti sociali” e “Orti solidali di comunità”, avviati negli ultimi anni in diverse diocesi sarde (compreso ad Iglesias), hanno coinvolto, in attività agricole, numerose persone e nuclei familiari in condizioni di fragilità, consentendo loro di condividere momenti di fraterni e di sentirsi attivi protagonisti nell’azione di custodia del creato.

Papa Francesco festeggia i primi cinquant’anni di Caritas Italiana nell’Aula Paolo VI

Alcuni rappresentanti delle Caritas della Sardegna presenti all’udienza

Al prossimo 2 luglio saranno 50 anni. Mezzo secolo dalla nascita, fortemente voluta dall’allora pontefice e oggi santo Paolo VI, della Caritas Italiana: l’organismo pastorale della Chiesa italiana sorto con lo scopo di “promuovere – come si legge nel primo articolo del suo statuto -, anche in collaborazione con altri organismi, la testimonianza della carità della comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica”.

Nonostante le difficoltà del momento presente, legate all’emergenza pandemica, non sono mancate le occasioni di incontro e riflessione per celebrare il giubileo delle Caritas in Italia. A cominciare dal momento di preghiera tenutosi venerdì 25 giugno, presso la Basilica di San Paolo fuori le mura, alla presenza – fra gli altri – del presidente di Caritas Internationalis, il cardinale Luis Antonio Gokim Tagle.

Sabato 26, presso l’Aula Paolo VI in Vaticano, i partecipanti alle celebrazioni del 50°, provenienti da varie parti d’Italia (ampia anche la delegazione dalla Sardegna), sono stati accolti in udienza da Papa Francesco, il quale, a conclusione di una mattinata in cui sono state proposte diverse testimonianze dai vari contesti regionali, ha rivolto un messaggio colmo di gratitudine per questi cinque decenni di servizio e di incoraggiamento per il futuro. Nel ringraziare anzitutto il Signore per questi primi cinquant’anni, Papa Francesco ha voluto indicare tre vie per proseguire il cammino, esortando a percorrerle con gioia: partire dagli ultimi, custodire lo stile del Vangelo e sviluppare la creatività.

Le tre vie indicate dal pontefice per proseguire nella testimonianza della carità

La prima strada suggerita da Francesco è dunque la via degli ultimi. “È da loro che si parte, dai più fragili e indifesi. Da loro. Se non si parte da loro, non si capisce nulla […]. La carità è la misericordia che va in cerca dei più deboli, che si spinge fino alle frontiere più difficili per liberare le persone dalle schiavitù che le opprimono”. Compito della Caritas è proprio questo: aiutare le Chiese locali a praticare questa misericordia, allargando i sentieri della carità ma tenendo sempre fisso lo sguardo sugli ultimi. Bisogna sempre partire dagli occhi del povero che abbiamo davanti. “Lì si impara – ha precisato Francesco –. Se noi non siamo capaci di guardare negli occhi i poveri, di guardarli negli occhi, di toccarli con un abbraccio, con la mano, non faremo nulla. È con i loro occhi che occorre guardare la realtà […] perché è la prospettiva di Gesù. Sono i poveri che mettono il dito nella piaga delle nostre contraddizioni e inquietano la nostra coscienza in modo salutare, invitandoci al cambiamento. E quando il nostro cuore, la nostra coscienza, guardando il povero, i poveri, non si inquieta – ha avvertito il Papa – fermatevi…, dovremmo fermarci: qualcosa non funziona”.

Una seconda strada indicata da Papa Francesco per proseguire nel servizio della testimonianza della carità è l’irrinunciabile via del Vangelo. Si tratta di una strada che diventa stile di vita: “lo stile dell’amore umile, concreto ma non appariscente, che si propone ma non si impone”. È lo stile dell’amore gratuito e disinteressato, che non cerca gloria e neppure ricompense; è lo stile della disponibilità e del servizio, che si abbassa fino alla spogliazione di sé stessi. È lo stile del Signore Gesù. La via del Vangelo è la strada maestra della carità inclusiva del tutto (per la persona tutta, integralmente considerata, e per tutte le persone, senza distinzioni di nessun genere). In questa prospettiva, ha sottolineato Francesco, la carità è inclusiva perché “non si occupa solo dell’aspetto materiale e nemmeno solo di quello spirituale. La salvezza di Gesù abbraccia l’uomo intero. Abbiamo bisogno di una carità dedicata allo sviluppo integrale della persona: una carità spirituale, materiale, intellettuale”. Basterebbe ricordarsi che Gesù è realmente presente in ogni povero, precisa il Papa, per evitare di cadere nella “tentazione, sempre ricorrente, dell’autoreferenzialità ecclesiastica”. Inoltre, la via del Vangelo è quella che permette alla testimonianza della carità di coniugare la misericordia con una non meno importante “parresia della denuncia”: “Essa – sottolinea Francesco – non è mai polemica contro qualcuno, ma profezia per tutti: è proclamare la dignità umana quando è calpestata, è far udire il grido soffocato dei poveri, è dare voce a chi non ne ha”.

La terza strada indicata dal Papa è quella via della creatività che fa riecheggiare la “fantasia della carità” di cui parlò vent’anni prima San Giovanni Paolo II, nella Lettera apostolica “Novo millennio ineunte”. “La ricca esperienza di questi cinquant’anni non è un bagaglio di cose da ripetere”, ha precisato  Francesco, ma “la base su cui costruire” per il futuro e rispetto a cui “lo Spirito Santo, che è creatore e creativo, e anche poeta, suggerirà idee nuove, adatte ai tempi che viviamo”.

Guardare al futuro significa vedere l’orizzonte con occhi giovani. Ed è proprio ai giovani che, in conclusione del messaggio, Papa Francesco ha chiesto di prestare attenzione: “Sono le vittime più fragili di questa epoca di cambiamento, ma anche i potenziali artefici di un cambiamento d’epoca. La Caritas può essere una palestra di vita per far scoprire a tanti giovani il senso del dono, per far loro assaporare il gusto buono di ritrovare sé stessi dedicando il proprio tempo agli altri. Così facendo la Caritas stessa rimarrà giovane e creativa, manterrà uno sguardo semplice e diretto, che si rivolge senza paura verso l’Alto e verso l’altro, come fanno i bambini”.

Dopo questi primi cinquant’anni bisogna dunque ricominciare a crescere. E per crescere, raccogliendo l’invito di Francesco, bisogna essere disposti a ritornare bambini.

Mons. Tarcisio Pillolla è tornato alla Casa del Padre

Papa Benedetto XVI con Mons. Pillolla

La mattina del 16 giugno 2021, mons. Tarcisio Pillolla, Vescovo emerito di Iglesias, è tornato alla Casa del Padre. La Diocesi di Iglesias, e con essa la Caritas diocesana, sono grati al Signore per il suo generoso servizio episcopale.

Nato a Pimentel l’11 luglio 1930 è stato ordinato sacerdote nella Basilica di Bonaria il 4 luglio 1954, dall’allora Arcivescovo di Cagliari Paolo Botto. Fu Mons. Botto, nel 1958, ad affidare al giovane don Tarcisio la direzione di “Orientamenti”, la testata diocesana, fondata all’indomani della chiusura del “Quotidiano sardo”. Insegnante di religione, vice parroco a San Lucifero, assistente dei maestri di Azione Cattolica, cappellano in alcune case di cura, con Monsignor Giuseppe Bonfiglioli diviene Cancelliere arcivescovile. Monsignor Giovanni Canestri lo vuole come Vicario generale e dopo pochi mesi (ai primi di maggio del 1986) lo propone a Giovanni Paolo II come Vescovo ausiliare. Viene ordinato Vescovo l’8 giugno 1986, nella basilica di Nostra Signora di Bonaria. Nel 1999 la nomina a Vescovo di Iglesias. Guiderà la Diocesi fino al 2007.

Manterrà sempre viva l’amicizia con la comunità diocesana di Iglesias, così pure il suo legame con la Caritas diocesana, alla quale non farà mancare parole di incoraggiamento e il generoso aiuto in momenti particolari, come ad esempio – lo scorso anno – in occasione della pandemia da Covid-19. Volendo sostenere le iniziative di aiuto  nei confronti delle tante famiglie colpite dalla crisi economica a seguito del confinamento forzato, Mons. Pillolla si prodigò per far giungere un aiuto concreto alle iniziative solidali delle Parrocchie della Diocesi, tramite la Caritas diocesana di Iglesias.

Cresce il lavoro minorile anche a causa della pandemia

Nel 1999 lo studioso Kevin Bales, uno dei massimi esperti mondiali sulla schiavitù contemporanea, pubblicò un volume dal titolo Disposable people. New Slavery in the global economy, tradotto l’anno seguente in italiano, per i tipi della Feltrinelli, col titolo I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale. Le cifre che emergevano da quello studio descrivevano un mondo in cui una moltitudine silenziosa, troppo spesso costituita da bambini, lavorava quasi a costo zero per produrre la ricchezza e il benessere di pochi. Persone “usa e getta”, per riprendere il titolo del volume di Bales, frutto di quella che Papa Francesco chiamerebbe “cultura dello scarto”: una “cultura” che alligna nella società delle disuguaglianze crescenti e del divario tra chi ha troppo poco (una maggioranza crescente) e chi ha troppo (una minoranza sempre più risicata).

Malauguratamente in questi ultimi vent’anni le cose non sono migliorate, in modo particolare per quanto attiene il lavoro minorile. È quanto si desume in modo allarmante dal Rapporto dal titolo Child labour: 2020 global estimates, trends and the road forward (“Lavoro minorile: stime globali 2020, tendenze e percorsi per il futuro”), pubblicato congiuntamente dall’OIL (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro) e dall’UNICEF in occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile (12 giugno). I dati mettono purtroppo in luce una dura realtà: il progresso verso l’eliminazione del lavoro minorile non solo ha subito una battuta d’arresto, dopo i risultati incoraggianti tra il 2000 e il 2016, ma ha persino registrato una pericolosa regressione anche a causa della crisi economica generata dalla pandemia da COVID-19.

Il numero complessivo dei bambini occupati in attività che possono danneggiare la loro salute e il loro sviluppo psico-fisico e morale è salito a 160 milioni, con un aumento di 8,4 milioni negli ultimi quattro anni. Circa la metà del totale è costituito da bambini di età compresa tra i 5 e gli 11 anni. Ad aumentare dal 2016, in particolare, è il numero di bambini di età compresa tra i 5 e i 17 anni, con un incremento di ben 6,5 milioni. Si tratta di un incremento con velocità e intensità diverse, a seconda del contesto geografico: nell’Africa sub-sahariana, ad esempio, negli ultimi quattro anni, a causa dell’estrema povertà, delle misure insufficienti di protezione socio-sanitaria e di sicurezza alimentare e delle ricorrenti crisi socio-politiche, alla schiera dei lavoratori si sono aggiunti 16,6 milioni di bambini.

Anche in quelle realtà dove si erano registrati dei significativi progressi dal 2016 in poi, come l’America latina e l’Asia, la crisi economica determinata dalla pandemia ha provocato delle regressioni importanti. L’aumento del lavoro minorile causato dalla pandemia si spiega fondamentalmente per due ragioni: i minori introiti delle famiglie in condizioni economiche precarie a causa del confinamento (e dunque la necessità di incrementare il reddito familiare con ogni mezzo e impiegando lavorativamente tutti i componenti del nucleo) e l’abbandono scolastico dei minori – temporaneo o definitivo – causato dalla chiusura delle scuole e dall’impossibilità di seguire le attività previste con la didattica a distanza (per mancanza di dispositivi elettronici e/o l’assenza di connessione ad internet).

Il citato Rapporto dell’OIL e dell’UNICEF pone bene in luce come sia soprattutto il settore agricolo ad assorbire la quota del lavoro minorile (il 70 per cento, pari a 112 milioni), seguito dai servizi (20 per cento) e dall’industria (10 per cento). È triste constatare come quasi il 28 per cento dei bambini tra i 5 e gli 11 anni e il 35 per cento dei bambini tra i 12 e i 14 anni non vadano a scuola ma siano costretti in qualche modo a svolgere una mansione lavorativa per poter incrementare il reddito familiare. Il lavoro minorile si concentra in prevalenza nelle aree rurali ed è più diffuso tra i maschi.

A commento dei dati prodotti dal Rapporto il direttore esecutivo dell’UNICEF, Henrietta Holsman Fore, sottolinea come «stiamo perdendo terreno nella lotta contro il lavoro minorile e l’ultimo anno non ha reso questa lotta più facile. In questo secondo anno di confinamento a livello mondiale, con la chiusura delle scuole, l’interruzione delle attività economiche e la riduzione dei bilanci nazionali, le famiglie sono costretto a fare scelte disperate». È quanto sta avvenendo in Argentina, dove il 16 per cento delle ragazze e dei ragazzi tra i 13 e i 17 anni è costretto a lavorare, nonostante la legge vieti il lavoro fino ai 15 anni di età: la metà di quella quota ha cominciato a lavorare proprio durante la pandemia.

Per il direttore generale dell’OIL, Guy Ryder, si ha bisogno di un sistema di protezione sociale inclusivo, che permetta «alle famiglie di poter mandare i loro figli a scuola anche in un contesto di vulnerabilità e difficoltà economica. È essenziale aumentare gli investimenti nello sviluppo rurale e nel lavoro dignitoso in agricoltura». Per spezzare la catena di questa moderna schiavitù l’OIL e l’UNICEF, nell’Anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile, chiedono: un’adeguata protezione sociale per tutti, comprese le prestazioni familiari universali; l’aumento degli investimenti a favore di un’istruzione di qualità e il ritorno dei bambini a scuola; la promozione del lavoro dignitoso per gli adulti, affinché le famiglie non debbano ricorrere al lavoro dei loro bambini per generare reddito familiare; porre fine agli stereotipi di genere e delle discriminazioni che hanno un impatto sul lavoro minorile; investimenti in sistemi di protezione dell’infanzia.

Raffaele Callia

All’ombra dell’ultimo muro, tra Haiti e Repubblica Dominicana

No, la stagione dei muri non è finita a Berlino nel 1989. Dal crollo di quel simbolo di divisione per eccellenza fra due mondi, due filosofie politiche e due stili di vita contrapposti (seppur mascherati da mille divergenze al proprio interno) sono cresciute a dismisura le barricate in diversi angoli del mondo: muri divisori che, senza scomodare in modo altisonante mondi, filosofie politiche e stili di vita diversi, semplicemente separano l’umanità in ricchi e poveri. Esistono mura in Brasile, per rimuovere dallo sguardo i derelitti delle favelas; così avviene anche a Lima, in Perù, dove una barriera divide i quartieri ricchi da quelli poveri. Si ergono mura ai confini tra Stati Uniti e Messico, per impedire l’arrivo dei migranti irregolari; così come al confine tra Serbia e Ungheria, tra Kenya e Somalia. Per non parlare poi dei muri che dividono palestinesi e israeliani nella Terra santa, dei muri con filo spinato che dividono spagnoli e marocchini nelle enclave spagnole (in terra marocchina) di Ceuta e Melilla e dei muri non visibili, ma molto efficaci, esistenti nel Mar Mediterraneo.

Recentemente, si va ad aggiungere a questo triste campionario il muro che la Repubblica dominicana sta erigendo ai confini con la poverissima Haiti, nell’isola di Hispaniola. A fine febbraio il presidente dominicano Luis Abinader aveva annunciato al Parlamento l’intenzione di erigere una barriera lunga oltre 370 chilometri (è da supporre costosissima), ufficialmente con l’intenzione di frenare l’entrata di migranti irregolari haitiani, il traffico di droga, il contrabbando e il furto di veicoli e di bestiame. Sembrava una boutade propagandistica e invece il progetto è diventato già esecutivo, con la realizzazione dei primi 23 chilometri, prevedendo per il futuro anche l’utilizzo di sensori di movimento, sistemi a raggi infrarossi e telecamere per il riconoscimento facciale. Stando a quanto riferisce la stampa latinoamericana, come ad esempio il venezuelano Latin American Herald Tribune, la recinzione, alta circa quattro metri, ha fondamenta in cemento ed è completata da filo spinato; il tratto più lungo «inizia sulle rive del Lago Azuei, il più grande di Haiti, e si snoda attraverso le colline aride che circondano la città dominicana di Jimani. Quell’area urbana – precisa il giornale – è la più vicina al valico di frontiera che si trova sull’autostrada che collega Santo Domingo a Port-au-Prince».

Le risposte della società civile e di gran parte dell’opinione pubblica dei due Paesi non si sono fatte attendere. I piani, infatti, sono stati criticati non solo dalle associazioni che si occupano di tutela dei diritti umani ma anche dagli stessi commercianti haitiani e dominicani. Si pone l’accento sul fatto che la recinzione intacca la libertà del commercio e rappresenta una minaccia per l’incolumità delle persone che quotidianamente attraversano i confini in cerca di lavoro, anche solo giornaliero. Inoltre, invece che unire le due comunità non farà altro che dividerle ulteriormente. Secondo l’agenzia di stampa britannica Reuters, che cita stime ufficiali del governo, nella Repubblica Dominicana, ben più prospera della vicina Haiti, risiede più di mezzo milione di immigrati haitiani (circa il 5% della popolazione complessiva) e sono decine di migliaia i figli nati in quel Paese.  Buona parte dei residenti non ha un regolare permesso di soggiorno.

Parlando di Haiti e dei suoi infiniti problemi è da segnalare anche una buona notizia. Il 22 maggio scorso il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha annunciato che i circa 55.000 rifugiati haitiani giunti fino a quel momento negli States non saranno espulsi e potranno beneficiare di uno status di protezione temporanea, che permetterà loro di vivere e lavorare legalmente per almeno altri 18 mesi. A questo proposito il Segretario per la sicurezza interna, Alejandro Mayorkas, ha dichiarato che «Haiti sta attualmente vivendo gravi problemi di sicurezza, disordini sociali, un aumento delle violazioni dei diritti umani, povertà paralizzante e mancanza di risorse di base, che sono esacerbate dalla pandemia COVID-19 […]. Dopo un’attenta considerazione, abbiamo stabilito che dobbiamo fare il possibile per sostenere i cittadini haitiani negli Stati Uniti fino a quando le condizioni ad Haiti miglioreranno in modo che possano tornare a casa in sicurezza».

Qualche segnale di speranza, per una popolazione destinata tristemente a vivere in una ininterrotta condizione di difficoltà e di oppressione.

Raffaele Callia