Notizie buone e cattive dalla Conferenza dell’ONU sul clima

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Per molti commentatori la XXVI Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop26) ha fatto parlare di sé più di quanto la Conferenza stessa abbia parlato concretamente delle emergenze climatiche. Tuttavia, per stabilire se davvero tale vertice sia stato un fallimento o un successo bisognerebbe stabilire cosa si intende esattamente con questi due termini.

È certo che diversi protagonisti del summit, tenutosi nella città scozzese dal 31 ottobre al 12 novembre, non hanno nascosto la propria delusione per gli esiti incerti del testo finale. Un risultato che tiene conto degli impegni a lungo termine sull’azzeramento delle emissioni di gas serra, assi diversi per obiettivo temporale e a seconda del contesto geo-politico di riferimento: UE e USA al 2050, la Cina al 2060 e l’India al 2070. D’altra parte sono stati proprio l’India e la Cina ad aver imposto di modificare il passaggio del testo in cui si chiedeva di eliminare l’uso del carbone, sostituendolo con un generico obiettivo a ridurlo. Ecco perché la maggior parte delle associazioni ambientaliste hanno definito il testo finale dell’accordo vago e inconsistente.

Peraltro, non sono mancate le preoccupazioni dei Paesi più esposti agli effetti del cambiamento climatico, i quali hanno protestato per la mancanza di strumenti risarcitori a motivo dei danni provocati dai Paesi industrializzati, per lo più responsabili delle emissioni di gas serra. I primi, infatti, avrebbero dovuto ricevere 100 miliardi di dollari all’anno per finanziare la transizione energetica (un impegno stabilito nel 2009 e mai rispettato). A Glasgow, invece, si è promesso di mobilitare circa 500 miliardi di dollari entro il 2025.

L’insuccesso più grosso è senza dubbio il non essere riusciti a dichiarare l’impegno di evitare che entro la fine del secolo la temperatura media globale aumenti di più di 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale. A questo proposito le previsioni più pessimistiche, fra cui quelle elaborate dal gruppo di ricerca indipendente che cura il cosiddetto “Climate Action Tracker”, avvertono che le temperature globali potranno aumentare di almeno 2,4 gradi anche nel caso in cui gli impegni siano assunti pienamente a livello globale. E questo perché si giunge con almeno vent’anni di ritardo.

Altra incognita assai importante è legata al fatto che, al netto delle dichiarazioni roboanti, gli accordi raggiunti a Glasgow non sono vincolanti per gli Stati e non esistono meccanismi che di fatto li rendano cogenti.

Tra i successi ottenuti a Glasgow vi è anzitutto il fatto – non secondario – che l’emergenza climatica si è finalmente imposta come argomento assolutamente prioritario nel dibattito istituzionale a livello mondiale, dopo anni di scetticismo ai massimi livelli. L’accordo, giunto al termine di oltre due settimane di negoziati e sottoscritto da quasi 200 Stati, cita storicamente per la prima volta, in modo esplicito, la necessità di limitare l’impiego di combustibili fossili. Altri accordi importanti raggiunti a Glasgow sono quelli relativi alla riduzione del 30% delle emissioni di metano e quello per fermare la deforestazione (entrambi entro il 2030).

Dopo circa 20 anni il dibattito sull’emergenza climatica promosso in seno alla comunità scientifica e fatto proprio dalla società civile, si è finalmente trasformato in vera e propria priorità globale. La Cop26 lo ha ufficialmente certificato e ciò rappresenta un punto di non ritorno per l’intero pianeta.

Raffaele Callia