Cresce il lavoro minorile anche a causa della pandemia

Nel 1999 lo studioso Kevin Bales, uno dei massimi esperti mondiali sulla schiavitù contemporanea, pubblicò un volume dal titolo Disposable people. New Slavery in the global economy, tradotto l’anno seguente in italiano, per i tipi della Feltrinelli, col titolo I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale. Le cifre che emergevano da quello studio descrivevano un mondo in cui una moltitudine silenziosa, troppo spesso costituita da bambini, lavorava quasi a costo zero per produrre la ricchezza e il benessere di pochi. Persone “usa e getta”, per riprendere il titolo del volume di Bales, frutto di quella che Papa Francesco chiamerebbe “cultura dello scarto”: una “cultura” che alligna nella società delle disuguaglianze crescenti e del divario tra chi ha troppo poco (una maggioranza crescente) e chi ha troppo (una minoranza sempre più risicata).

Malauguratamente in questi ultimi vent’anni le cose non sono migliorate, in modo particolare per quanto attiene il lavoro minorile. È quanto si desume in modo allarmante dal Rapporto dal titolo Child labour: 2020 global estimates, trends and the road forward (“Lavoro minorile: stime globali 2020, tendenze e percorsi per il futuro”), pubblicato congiuntamente dall’OIL (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro) e dall’UNICEF in occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile (12 giugno). I dati mettono purtroppo in luce una dura realtà: il progresso verso l’eliminazione del lavoro minorile non solo ha subito una battuta d’arresto, dopo i risultati incoraggianti tra il 2000 e il 2016, ma ha persino registrato una pericolosa regressione anche a causa della crisi economica generata dalla pandemia da COVID-19.

Il numero complessivo dei bambini occupati in attività che possono danneggiare la loro salute e il loro sviluppo psico-fisico e morale è salito a 160 milioni, con un aumento di 8,4 milioni negli ultimi quattro anni. Circa la metà del totale è costituito da bambini di età compresa tra i 5 e gli 11 anni. Ad aumentare dal 2016, in particolare, è il numero di bambini di età compresa tra i 5 e i 17 anni, con un incremento di ben 6,5 milioni. Si tratta di un incremento con velocità e intensità diverse, a seconda del contesto geografico: nell’Africa sub-sahariana, ad esempio, negli ultimi quattro anni, a causa dell’estrema povertà, delle misure insufficienti di protezione socio-sanitaria e di sicurezza alimentare e delle ricorrenti crisi socio-politiche, alla schiera dei lavoratori si sono aggiunti 16,6 milioni di bambini.

Anche in quelle realtà dove si erano registrati dei significativi progressi dal 2016 in poi, come l’America latina e l’Asia, la crisi economica determinata dalla pandemia ha provocato delle regressioni importanti. L’aumento del lavoro minorile causato dalla pandemia si spiega fondamentalmente per due ragioni: i minori introiti delle famiglie in condizioni economiche precarie a causa del confinamento (e dunque la necessità di incrementare il reddito familiare con ogni mezzo e impiegando lavorativamente tutti i componenti del nucleo) e l’abbandono scolastico dei minori – temporaneo o definitivo – causato dalla chiusura delle scuole e dall’impossibilità di seguire le attività previste con la didattica a distanza (per mancanza di dispositivi elettronici e/o l’assenza di connessione ad internet).

Il citato Rapporto dell’OIL e dell’UNICEF pone bene in luce come sia soprattutto il settore agricolo ad assorbire la quota del lavoro minorile (il 70 per cento, pari a 112 milioni), seguito dai servizi (20 per cento) e dall’industria (10 per cento). È triste constatare come quasi il 28 per cento dei bambini tra i 5 e gli 11 anni e il 35 per cento dei bambini tra i 12 e i 14 anni non vadano a scuola ma siano costretti in qualche modo a svolgere una mansione lavorativa per poter incrementare il reddito familiare. Il lavoro minorile si concentra in prevalenza nelle aree rurali ed è più diffuso tra i maschi.

A commento dei dati prodotti dal Rapporto il direttore esecutivo dell’UNICEF, Henrietta Holsman Fore, sottolinea come «stiamo perdendo terreno nella lotta contro il lavoro minorile e l’ultimo anno non ha reso questa lotta più facile. In questo secondo anno di confinamento a livello mondiale, con la chiusura delle scuole, l’interruzione delle attività economiche e la riduzione dei bilanci nazionali, le famiglie sono costretto a fare scelte disperate». È quanto sta avvenendo in Argentina, dove il 16 per cento delle ragazze e dei ragazzi tra i 13 e i 17 anni è costretto a lavorare, nonostante la legge vieti il lavoro fino ai 15 anni di età: la metà di quella quota ha cominciato a lavorare proprio durante la pandemia.

Per il direttore generale dell’OIL, Guy Ryder, si ha bisogno di un sistema di protezione sociale inclusivo, che permetta «alle famiglie di poter mandare i loro figli a scuola anche in un contesto di vulnerabilità e difficoltà economica. È essenziale aumentare gli investimenti nello sviluppo rurale e nel lavoro dignitoso in agricoltura». Per spezzare la catena di questa moderna schiavitù l’OIL e l’UNICEF, nell’Anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile, chiedono: un’adeguata protezione sociale per tutti, comprese le prestazioni familiari universali; l’aumento degli investimenti a favore di un’istruzione di qualità e il ritorno dei bambini a scuola; la promozione del lavoro dignitoso per gli adulti, affinché le famiglie non debbano ricorrere al lavoro dei loro bambini per generare reddito familiare; porre fine agli stereotipi di genere e delle discriminazioni che hanno un impatto sul lavoro minorile; investimenti in sistemi di protezione dell’infanzia.

Raffaele Callia