All’ombra dell’ultimo muro, tra Haiti e Repubblica Dominicana

No, la stagione dei muri non è finita a Berlino nel 1989. Dal crollo di quel simbolo di divisione per eccellenza fra due mondi, due filosofie politiche e due stili di vita contrapposti (seppur mascherati da mille divergenze al proprio interno) sono cresciute a dismisura le barricate in diversi angoli del mondo: muri divisori che, senza scomodare in modo altisonante mondi, filosofie politiche e stili di vita diversi, semplicemente separano l’umanità in ricchi e poveri. Esistono mura in Brasile, per rimuovere dallo sguardo i derelitti delle favelas; così avviene anche a Lima, in Perù, dove una barriera divide i quartieri ricchi da quelli poveri. Si ergono mura ai confini tra Stati Uniti e Messico, per impedire l’arrivo dei migranti irregolari; così come al confine tra Serbia e Ungheria, tra Kenya e Somalia. Per non parlare poi dei muri che dividono palestinesi e israeliani nella Terra santa, dei muri con filo spinato che dividono spagnoli e marocchini nelle enclave spagnole (in terra marocchina) di Ceuta e Melilla e dei muri non visibili, ma molto efficaci, esistenti nel Mar Mediterraneo.

Recentemente, si va ad aggiungere a questo triste campionario il muro che la Repubblica dominicana sta erigendo ai confini con la poverissima Haiti, nell’isola di Hispaniola. A fine febbraio il presidente dominicano Luis Abinader aveva annunciato al Parlamento l’intenzione di erigere una barriera lunga oltre 370 chilometri (è da supporre costosissima), ufficialmente con l’intenzione di frenare l’entrata di migranti irregolari haitiani, il traffico di droga, il contrabbando e il furto di veicoli e di bestiame. Sembrava una boutade propagandistica e invece il progetto è diventato già esecutivo, con la realizzazione dei primi 23 chilometri, prevedendo per il futuro anche l’utilizzo di sensori di movimento, sistemi a raggi infrarossi e telecamere per il riconoscimento facciale. Stando a quanto riferisce la stampa latinoamericana, come ad esempio il venezuelano Latin American Herald Tribune, la recinzione, alta circa quattro metri, ha fondamenta in cemento ed è completata da filo spinato; il tratto più lungo «inizia sulle rive del Lago Azuei, il più grande di Haiti, e si snoda attraverso le colline aride che circondano la città dominicana di Jimani. Quell’area urbana – precisa il giornale – è la più vicina al valico di frontiera che si trova sull’autostrada che collega Santo Domingo a Port-au-Prince».

Le risposte della società civile e di gran parte dell’opinione pubblica dei due Paesi non si sono fatte attendere. I piani, infatti, sono stati criticati non solo dalle associazioni che si occupano di tutela dei diritti umani ma anche dagli stessi commercianti haitiani e dominicani. Si pone l’accento sul fatto che la recinzione intacca la libertà del commercio e rappresenta una minaccia per l’incolumità delle persone che quotidianamente attraversano i confini in cerca di lavoro, anche solo giornaliero. Inoltre, invece che unire le due comunità non farà altro che dividerle ulteriormente. Secondo l’agenzia di stampa britannica Reuters, che cita stime ufficiali del governo, nella Repubblica Dominicana, ben più prospera della vicina Haiti, risiede più di mezzo milione di immigrati haitiani (circa il 5% della popolazione complessiva) e sono decine di migliaia i figli nati in quel Paese.  Buona parte dei residenti non ha un regolare permesso di soggiorno.

Parlando di Haiti e dei suoi infiniti problemi è da segnalare anche una buona notizia. Il 22 maggio scorso il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha annunciato che i circa 55.000 rifugiati haitiani giunti fino a quel momento negli States non saranno espulsi e potranno beneficiare di uno status di protezione temporanea, che permetterà loro di vivere e lavorare legalmente per almeno altri 18 mesi. A questo proposito il Segretario per la sicurezza interna, Alejandro Mayorkas, ha dichiarato che «Haiti sta attualmente vivendo gravi problemi di sicurezza, disordini sociali, un aumento delle violazioni dei diritti umani, povertà paralizzante e mancanza di risorse di base, che sono esacerbate dalla pandemia COVID-19 […]. Dopo un’attenta considerazione, abbiamo stabilito che dobbiamo fare il possibile per sostenere i cittadini haitiani negli Stati Uniti fino a quando le condizioni ad Haiti miglioreranno in modo che possano tornare a casa in sicurezza».

Qualche segnale di speranza, per una popolazione destinata tristemente a vivere in una ininterrotta condizione di difficoltà e di oppressione.

Raffaele Callia