Dal “naufragio” della superlega al naufragio dei migranti

Nel giro di pochi giorni si è passati dalla farsa di un “naufragio” virtuale, che in teoria avrebbe dovuto riguardare il mondo del calcio e che in verità con lo sport ha poco a che fare, alla tragedia concreta – drammaticamente concreta – del naufragio e della conseguente morte di 130 persone a bordo un gommone al largo della Libia.

Il primo è il naufragio di un progetto concepito da ricchi per società ricche e finalizzato ad accrescere i profitti. Il secondo, invece, racconta la morte tragica di persone povere desiderose solo di vivere dignitosamente; una morte rispetto a cui non dovremmo mai smettere di provare vergogna, col rischio per nulla remoto di assuefarci al disumano e in qualche modo finire per “normalizzarlo”.

Il progetto della “Superlega”, vale a dire l’idea di costituire chiaramente una conventio ad excludendum da parte delle società calcistiche dotate di maggiore disponibilità finanziaria, era volta a sganciarsi “dai rispettivi campionati nazionali, dove hanno giocato da sempre, per fargli disputare un campionato continentale a loro soltanto riservato” (sono le parole non di un giornalista sportivo ma dello storico Ernesto Galli della Loggia, sulle pagine del Corriere della Sera). Ebbene, tale progetto è andato in fumo nel giro di poche ore, ma restano inevitabilmente impresse nella mente le immagini dei protagonisti e le loro dichiarazioni: immagini e parole impastate di arroganza, di assurdo distacco dalla realtà e distanti anni luce dal pathos agonistico di chi crede ancora nello sport come a un insieme di passioni e valori positivi, che includono tutti e non escludono i più piccoli, che offrono opportunità di crescita e non impongono criteri che riecheggiano il censo di antica memoria.

Il secondo naufragio è un violentissimo pugno nello stomaco: un’ennesima tragedia umana incomprensibile e ingiustificabile, che suscita commozione, repulsione e vergogna; una sorta di coazione a ripetere – in verità del tutto conscia – che porta tutti noi, per l’ennesima volta, a un’assurda deriva rispetto al senso di umanità.

Le ore, le interviste e gli articoli dedicati alla “Superlega” superano abbondantemente quanto è stato riservato a questa tragedia: giusto il tempo necessario per consumare la consueta retorica sul rimpallo delle responsabilità e sul senso di impotenza. Tutto deve scorrere rapidamente: il calcio, le notizie riguardanti le società sportive; ma anche la disperazione, la tragedia, la morte. La cronaca quotidiana  dell’emergenza Covid ci ha riportato immediatamente sotto i suoi riflettori e ci ha fatto tirare il fiato, con composto sentimento di appartenenza nazionale, per lo “scampato pericolo” di vederci sottratto il “campionato dei nostri padri!”.

Si rimane impietriti di fronte a questo enorme paradosso, ma questo non può e non deve bastare. Quale destino potrà avere una società che non trova più il tempo per elaborare il lutto, il proprio lutto di esseri umani? Che cosa rischiamo di diventare se neanche l’immagine di quei corpi galleggianti, abbandonati a sé stessi, non è più in grado di farci piangere? Cosa si deve fare per evitare di precipitare ancora una volta nell’abisso del disumano?

Raffaele Callia