Autonomia differenziata e questione meridionale

Foto di Gherardo Sava

“La trasformazione del Mezzogiorno nella parte più vecchia e dipendente del Paese consolida […] la prospettiva di un Sud assistito, improduttivo; una palla al piede della quale liberarsi. Non è un processo alle intenzioni ricondurre a questi aspetti l’insistenza con la quale a Nord si punta a risolvere “per parti” la crisi italiana e a rivendicare autonomia, continuando ad accampare diritti alla restituzione di illusori e inesistenti residui fiscali”.

Così si esprime un recente Rapporto SVIMEZ a proposito dei mutamenti del Mezzogiorno d’Italia, ponendo l’accento su alcune questioni che richiamano immediatamente alla mente l’impegno dell’attuale Governo nel promuovere nuovi livelli di autonomia (la cosiddetta “autonomia differenziata”) per le regioni italiane. Per il Sud Italia si tratta di mutamenti sotto il profilo demografico (con un progressivo declino della natalità), della mobilità umana (con la persistenza di una emorragia migratoria di giovani e qualificate risorse) e del crescente divario in termini sociali ed economici nei confronti del Settentrione. A fronte di questi mutamenti in negativo la SVIMEZ accenna a un rischio di vera e propria “desertificazione” sociale, umana ed economica per il Mezzogiorno d’Italia.

Un confronto dei dati riguardo al cambiamento degli ultimi 50/70 anni pone bene in evidenza tale “desertificazione”. Negli anni ‘50 del Novecento, il 37,2% della popolazione italiana viveva a Sud e da quest’area proveniva il 49,6% delle nascite del Paese. Nel 2022 solo il 33,6% della popolazione italiana vive nel Mezzogiorno e da esso proviene soltanto il 35,7% delle nascite, per lo più a causa di una bassa fecondità. Nel 2040 l’ISTAT prevede che la popolazione italiana potrebbe ridursi di circa 2,9 milioni di abitanti, 2 dei quali dovuti al declino demografico del Mezzogiorno.

Cambiano dunque i paradigmi di riferimento. Se un tempo gli stereotipi prevalenti erano quelli di un Sud Italia dove le famiglie erano mononucleari, con molti figli e con una solidarietà interna perfino eccessiva, fino a sfociare nel fenomeno del “familismo amorale” teorizzato da Banfield; al giorno d’oggi le diverse aree del Paese si sono uniformate alla realtà di famiglie fluide, poliedriche e con una numerosità incerta, soprattutto con riferimento alla natalità. In questo senso è assai particolare il caso della Sardegna, la quale nel 1951 era la regione più feconda d’Italia (con 3,9 figli per donna) mentre nel 2020 si colloca in fondo alla graduatoria regionale con il tasso di fecondità più basso (meno di 1 figlio per donna).

Mentre una prolifica letteratura sociologica si sforza da qualche anno di interpretare le causa delle bassa fecondità, correlandola non solo ai costumi e agli stili di vita ma anche alle fragilità del mercato del lavoro, all’elevato costo di allevamento dei figli, all’assenza di solide infrastrutture sociali e reti di welfare in grado di sostenere le strategie genitoriali, alcuni analisti si soffermano in particolare sul ruolo delle politiche pubbliche per il Mezzogiorno, dopo 72 anni di interventi straordinari (a cominciare dalla istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, nel 1950) non in grado di ridurre i noti divari tra Nord e Sud. Uno di questi analisti, Carlo Borgomeo (attuale presidente della Fondazione con il Sud e sindacalista di lungo corso), sostiene la tesi di una “errata cultura dello sviluppo, tutta quantitativa ed economicistica; tutta basata sull’esigenza di rendere forte e potente l’offerta di risorse; e sostanzialmente disattenta alla domanda, alle energie locali, alle responsabilità locali. I meridionali, popolo ed istituzioni, destinatari e non corresponsabili delle politiche e degli interventi”. In altri termini, per Borgomeo non può esserci sviluppo solido e duraturo se non vi è una sufficiente dotazione di capitale sociale.

In un momento delicatissimo per la vita del Paese, nel quale le forze di governo sono intenzionate a metter mano al tema delle “autonomie differenziate”, è da considerare quanto mai opportuno il richiamo alle parole dei Vescovi italiani, i quali nell’ottobre del 1981, in un documento dal titolo La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, affermano che “Il Paese non crescerà, se non insieme”. Tema che verrà poi ripreso in un altro documento dell’episcopato italiano (26 ottobre 1989) dal titolo “Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno”. Se ne potrebbe suggerire una rilettura a quanti, tra i rappresentanti politici attuali che dichiarano di ispirarsi ai valori evangelici, avranno la responsabilità di formulare delle specifiche riforme in materia.

Raffaele Callia