Le molte incognite della XXVIII Conferenza sui cambiamenti climatici

Foto tratta da www.cop28.com

«Per quanto si cerchi di negarli, nasconderli, dissimularli o relativizzarli, i segni del cambiamento climatico sono lì, sempre più evidenti. Nessuno può ignorare che negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni estremi, frequenti periodi di caldo anomalo, siccità e altri lamenti della terra che sono solo alcune espressioni tangibili di una malattia silenziosa che colpisce tutti noi. È vero che non tutte le catastrofi possono essere attribuite al cambiamento climatico globale. Tuttavia, è verificabile che alcuni cambiamenti climatici indotti dall’uomo aumentano significativamente la probabilità di eventi estremi più frequenti e più intensi».

Con queste parole, al punto 5 dell’esortazione apostolica “Laudate Deum”, pubblicata il 4 ottobre scorso (memoria di San Francesco d’Assisi) Papa Francesco pone all’attenzione di “tutte le persone di buona volontà” la gravità dei rischi cui l’umanità è oggi sottoposta in merito agli effetti della crisi climatica. Parole che pongono di fronte a un’indifferibile responsabilità ognuno di noi e che assumono un valore assai particolare in questi giorni, proprio mentre le Nazioni Unite sono chiamate a riflettere sui mutamenti climatici.

Il 30 novembre scorso, infatti, all’Expo City di Dubai (negli Emirati Arabi Uniti), si è aperta la ventottesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28), la quale si è conclusa il 12 dicembre. Nonostante l’enfasi registrata a livello mediatico, con le dichiarazioni iniziali che sembrano incoraggiare a un atteggiamento responsabile condiviso a livello planetario, la Conferenza si è aperta registrando due assenze importanti, oltre a quella di Papa Francesco per motivi di salute: quella del presidente degli USA Joe Biden e del presidente cinese Xi Jinping; vale a dire i capi di Stato dei due Paesi che inquinano di più al mondo con l’emissione di anidride carbonica (CO2).

La Conferenza di Dubai, peraltro, si apre a distanza di poche settimane dalla pubblicazione del rapporto dell’Organizzazione metereologica mondiale delle Nazioni Unite (WMO), dal titolo United in Science 2023, con cui si è reso noto che si è ancora lontani dal trend necessario a raggiungere entro il 2030 gli obiettivi dell’accordo di Parigi, in particolare nel ridurre le emissioni globali di gas serra del 45%. Più recentemente, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) ha pubblicato il Report 2023 sulle emissioni di gas, dal quale si evince che, dal 2021 al 2022, le emissioni globali di gas serra sono aumentate dell’1,2%.

Va anche rilevato che è perlomeno curioso constatare come a presiedere la COP28, realizzata in uno dei Paesi che si pone trai i primi posti al mondo per riserve sia di petrolio sia di gas naturale (principali fattori di origine di riscaldamento globale e cambiamento climatico), sia Sultan Ahmed Al Jaber, che oltre ad essere il ministro dell’industria del Paese ospitante è anche l’amministratore delegato della principale compagnia petrolifera degli Emirati Arabi Uniti, l’Abu Dhabi National Oil Company.

Difficile pensare a una transizione energetica rapida con queste premesse, anche se gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici in corso sono sotto gli occhi di tutti. Ovviamente c’è da sperare che ne abbiano piena consapevolezza i delegati convenuti alla Conferenza di Dubai.

Papa Francesco, al punto 53 della “Laudate Deum”, domandandosi che cosa ci si aspetti dalla COP28 di Dubai, sottolinea come sarebbe autolesionistico non aspettarsi nulla, proprio perché «significherebbe esporre tutta l’umanità, specialmente i più poveri, ai peggiori impatti del cambiamento climatico».

Nella bozza di accordo che è circolata l’11 dicembre – un testo che dalle 27 pagine iniziali si è ridotto a 21 – è stato espunto il riferimento all’uscita graduale dai combustibili fossili mentre è restata l’indicazione generica a triplicare la capacità di produrre energia rinnovabile e a raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030, confermando la necessità «di una riduzione profonda, rapida sia del consumo che della produzione di combustibili fossili in modo giusto, ordinato ed equo, in modo da raggiungere lo zero netto entro, prima o intorno al 2050, come raccomandato dalla scienza». Sembrerebbe, dunque, che il predominio di petrolio, gas e carbone (e dei principali Paesi produttori di tali risorse energetiche) sia ancora molto forte, nonostante i disastri ambientali a cui si sta assistendo in questi ultimi anni e sui quali si è soffermato lo stesso segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres: «Il nostro pianeta è a pochi minuti dalla mezzanotte per quanto riguarda il limite di 1,5 gradi […]. Siamo in una corsa contro il tempo».

Peraltro, nel testo proposto dalla presidenza della COP28 si formula un’esortazione generica ad imprimere un’accelerazione nella produzione di «tecnologie a zero e a basse emissioni, comprese, tra le altre, le energie rinnovabili, il nucleare, le tecnologie di abbattimento e rimozione, comprese la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio, e la produzione di idrogeno a basso contenuto di carbonio, in modo da potenziare gli sforzi verso la sostituzione delle tecnologie fossili nei sistemi energetici». A questo riguardo, l’Agenzia internazionale per l’energia ha posto in luce come anche qualora questi impegni fossero mantenuti le emissioni globali di gas serra si ridurrebbero soltanto di un terzo del quantitativo necessario a limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi entro 6 anni.

Le divergenze sul tema giunte a Dubai sono emerse con grande chiarezza: si è ancora molto lontani dall’essere unanimemente concordi nell’abbandonare i combustibili fossili e accogliere la transizione ecologica come unica via da percorrere. Non a caso, Paesi come l’Arabia saudita e l’Iraq – entrambi membri dell’OPEC – hanno dichiarato che bisognerebbe fondamentalmente concentrarsi sulla riduzione di emissioni, esprimendo allo stesso tempo il proprio dissenso nei confronti della cosiddetta “uscita” (phase out) delle fonti fossili, la quale – a detta loro – produrrebbe un danno enorme per l’economia mondiale.

Tra i molti Paesi scontenti o perplessi rispetto alla fase di chiusura della COP28 anche la Repubblica delle Isole Marshall, un arcipelago di circa 180 chilometri quadrati situato in Oceania e abitato da circa 40.000 abitanti preoccupati dai rischi di inondazioni dovute ai possibili effetti del riscaldamento globale. «Ciò che abbiamo visto oggi è inaccettabile – ha dichiarato il ministro delle risorse naturali delle Isole Marshall, John Silk. Non andremo in silenzio nelle nostre tombe acquatiche. Non accetteremo un risultato che porterà alla devastazione del nostro Paese e di milioni, se  non miliardi, di persone e comunità più vulnerabili». «Siamo venuti qui – ha precisato il ministro Silk – per lottare per gli 1,5 gradi centigradi e per l’unico modo per realizzarlo: l’uscita graduale dei combustibili fossili».

In extremis, e senza alcuna discussione pubblica, la COP28 ha raggiunto in chiusura un accordo su una transizione che porti al disimpiego progressivo dei combustibili fossili, «al fine di raggiungere le emissioni zero nel 2050». Al posto del termine phase out si è preferito utilizzare il termine transitioning away, che rimanda a un approccio non radicale ma graduale, favorendo un abbandono «dei combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico».

Raffaele Callia