Tempo di ascolto e di speranza

Andrea Mantegna, La Resurrezione, tempera su tavola (1457-1459), Museo delle Belle Arti di Tours

È questa la seconda Pasqua segnata dalla sofferenza originata dalla pandemia. Già nell’estate scorsa i vescovi avevano offerto alla Chiesa italiana una riflessione dal titolo “È risorto il terzo giorno”: una lettura biblico-spirituale dell’esperienza della pandemia. Una meditazione utile anche per questa Pasqua 2021: l’esperienza del Venerdì e del Sabato – la permanenza del Figlio di Dio sulla croce e nel sepolcro – diventi un’esortazione a maturare un’esistenza diversa, da veri figli di Dio.

A noi cristiani è data la grazia di guardare ogni avvenimento della vita attraverso la lente del mistero pasquale, che culmina nell’annuncio che Cristo «è risorto il terzo giorno» (1Cor 15,4).
È tempo di ascoltare insieme la voce dello Spirito, che Gesù ci ha consegnato sulla croce (cf. Gv 19,30) e nel Cenacolo (cf. Gv 20,22).
Soprattutto nel celebrare il Triduo pasquale, ma anche ogni giorno della nostra vita, siamo chiamati ad accogliere il mistero della morte e il silenzio del sepolcro, senza mai chiuderci alla speranza della risurrezione.

Ci è chiesto di fare questa esperienza non solo attraverso l’ascolto della Parola e nella celebrazione dei Sacramenti, ma anche nell’incontro con la sofferenza dei fratelli, vicini e lontani, intorno a noi.

La pandemia ha rivelato il dolore del mondo: ha prodotto sofferenza e ne produrrà anche in futuro, con conseguenze economiche e sociali vaste e persistenti. Si tratta di sofferenze profonde che non possiamo ignorare. È il mistero del male, che il Figlio di Dio ha voluto prendere su di sé.

Però sul Calvario c’è dell’altro. Nei pressi della croce, intorno a Gesù che offre per noi la sua vita, insieme a Maria, la Madre, ci sono alcune donne, il discepolo amato, il centurione, Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea: poche persone, certo, ma rappresentanti di un resto di umanità capace di “stare in piedi” sotto la croce (cf. Gv 19,25). Quel Venerdì si rivela così un giorno non solo di violenza e morte, ma anche di pietà e condivisione.

L’impegno della Chiesa e, in essa, la fatica amorevole delle Caritas in ogni parrocchia, diventano perciò un’occasione preziosa per vivere in profondità il mistero pasquale nella nostra vita, non solo come memoria storica della morte e risurrezione di Gesù, ma come esperienza della sua presenza di Crocifisso Risorto oggi in mezzo a noi.
Se sapremo vivere, leggere ed elaborare con vera carità l’esperienza di sofferenza nostra e dei nostri fratelli ascoltando lo Spirito e partecipando al mistero della Pasqua del Signore, allora anche questa pandemia ci avrà insegnato qualcosa di importante. Potremo così camminare come comunità ecclesiale sui passi dell’uomo del nostro tempo, animati da tenerezza e comprensione e da una speranza che non delude.

+ Giovanni Paolo Zedda
Vescovo di Iglesias

Storie di risalita nella luce del Risorto

La vita delle persone è un ineffabile e ineluttabile mistero. Avvolta ancor di più nel mistero è la storia delle loro sofferenze; delle prove quotidiane che si presentano lungo il cammino dell’esistenza.

Nel buio della prova si fa fatica a dare un senso, tant’è grande l’abisso che ci separa da una spiegazione razionale sul perché del male, della guerra, della malattia e della sofferenza; sul perché del distacco dalle persone care, sul perché della morte. Nel buio delle nostre ingannevoli certezze tutto sembra apparire confuso e senza spiegazione: non si comprendono la povertà, l’ingiustizia, la violenza; non si comprendono la solitudine, la malattia, la depressione; non si comprende la morte. Tutto sembra destinato a rimanere immobile, in un buio immanente e senza via d’uscita. Anche per quanti credono, con una fede forse un po’ troppo tiepida, la stessa Croce rischia di rimanere un mistero “assurdo” e dunque stonato, privo di ogni logica.

Per chi riceve la grazia di una fede che si alimenta quotidianamente della fiamma della speranza e che si fa trasformare nel crogiolo della carità, quella condizione di buio acquista per sua natura un senso profondo e trascendente. L’abisso dell’assurdo si trasforma così in una ricerca paziente di un pellegrinaggio quotidiano che, in compagnia del Signore Gesù, non evita il Golgota, ma neppure intende fermarsi ad esso e neanche desidera sostare più del necessario nel buio del sepolcro. Va oltre. Chi riceve la grazia della fede fa come farebbe un bambino nel buio di una notte che sembra non finire mai: si affida, anzi si abbandona totalmente alla protezione paterna e materna; alla protezione della misericordia di Dio. La grazia della fede ci affida la certezza che dopo ogni caduta nel buio del non senso è possibile rialzarsi nella luce del Risorto.

Le storie di vita che gli operatori Caritas sono chiamati ad ascoltare e ad accogliere, alcune delle quali sono narrate anche in questo numero di Impegno Caritas, restituiscono un’immagine che ci permette di tornare al cuore della fede, anche in questo tempo persistente e incerto di pandemia. No, non siamo mai soli, neanche nelle prove più dure, poiché il Signore Gesù ha tolto alla morte l’ultima parola. Ecco, sarebbe bello se quando ci faremo gli auguri per la Pasqua – di buona Pasqua di Resurrezione del Signore Gesù – ci ricordassimo di questo.

Raffaele Callia

Tratto da Impegno Caritas, n. 2, marzo 2021. L’intero numero è consultabile al link: https://impegnocaritas.wixsite.com/newsletter-2

La gioia del ritorno in servizio

Gesù e la samaritana al pozzo di Giacobbe (mosaico di P. Marko Rupnik presso la Cappella della Casa incontri cristiani di Capiago)

L’arrivo del Covid-19 ha messo alla prova molti giovani. Seppur indaffarati nel loro frenetico mondo fatto di studio, relazioni amicali e familiari, anch’essi hanno assistito a uno stravolgimento della propria vita. «Non avrei mai immaginato quello che poi è successo» racconta Aurora Fonnesu, giovane volontaria e referente dell’Area Immigrazione, impegnata da anni presso il Centro di ascolto Il Pozzo di Giacobbe, un servizio per stranieri della Caritas diocesana di Iglesias. «All’inizio della pandemia le informazioni erano estremamente confuse, alcune volte contraddittorie; nelle settimane precedenti il primo confinamento non avevo una percezione chiara».

Aurora ha proseguito per qualche settimana nel proprio impegno, fino a quando le è stato possibile. «Era mia intenzione, durante il lockdown, continuare a prestare servizio presso il Centro d’ascolto; purtroppo però i miei familiari, molto preoccupati per la situazione generale, mi hanno chiesto espressamente di interrompere il servizio per la durata del confinamento». Aurora si è quindi trovata suo malgrado di fronte a un bivio: da un lato avrebbe voluto accogliere i fratelli stranieri, ancora più provati e fragili proprio a causa della pandemia; dall’altro pensava che sarebbe stato giusto assecondare la richiesta della sua famiglia, in apprensione per il rischio di contagio. «Questa situazione mi ha creato un grosso conflitto interiore: una prova personale all’interno della prova complessiva data dalla pandemia. A malincuore ho dovuto sospendere temporaneamente il mio servizio».

Con l’arrivo dell’estate e un relativo miglioramento riguardo ai contagi Aurora ha finalmente ripreso regolarmente il proprio impegno nel Centro di ascolto, superando le paure e aprendosi ai bisogni degli altri. Ricorda con entusiasmo quel giorno: «È stato per me come un parziale ritorno alla normalità. Ho vissuto questo avvenimento con grande sollievo perché potevo tornare a dimostrare la mia vicinanza ai nostri fratelli stranieri». Con l’inizio del nuovo anno pastorale le operatrici del Pozzo di Giacobbe hanno ripreso le attività con maggiore determinazione, provando a garantire costantemente accoglienza e accompagnamento agli stranieri. «Come gruppo – precisa Aurora – abbiamo colto questa sfortunata occasione per migliorare la qualità del servizio che forniamo e curare maggiormente i rapporti con le persone e le istituzioni». Aurora non dimentica il difficile periodo trascorso ma vuole guardare avanti, proseguendo con maggiore determinazione il proprio servizio in favore dei fratelli stranieri.

Emanuela Frau

Tratto da Impegno Caritas, n. 2, marzo 2021. L’intero numero è consultabile al link: https://impegnocaritas.wixsite.com/newsletter-2

Siria, dieci anni dopo l’inizio della guerra

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Sono trascorsi 10 anni esatti da quando la cosiddetta “primavera araba” è fiorita e repentinamente avvizzita in Siria, portandosi dietro una tristissima contabilità di distruzione, morte, profughi e instabilità politica. La voce del popolo siriano, che chiedeva libertà, dignità e giustizia, è stata soffocata brutalmente nel sangue in una violenza che continua a persistere da ben due lustri, tradendo le aspettative di chi pensava che anche a Damasco si sarebbe instaurato finalmente un regime democratico.

A dieci anni di distanza sono oltre 6 milioni e mezzo i siriani che hanno trovato rifugio al di fuori del proprio Paese; sono circa 6 milioni e 700 mila gli sfollati, ovverosia costretti a fuggire all’interno dei confini nazionali. Dopo dieci anni di guerra hanno perso la vita tra le 400.000 e le 500.000 persone e sono circa 13 milioni e 400 mila coloro che necessitano di assistenza umanitaria a causa della guerra.

Nella circostanza di questo tristissimo decennio per la Siria, Caritas Italiana ha pubblicato un dossier con dati e testimonianze dal titolo “La speranza del ritorno. Dieci anni di guerra, fra violenze, distruzione e vite sospese”. Con tale strumento, come si legge nelle pagine del dossier, si è inteso “riavvolgere il nastro per ricostruire il quadro d’insieme”, così da permettere almeno di “immaginare delle vie di uscita possibili dalla crisi […] in grado di portare a una pace duratura, alla ripresa economica del Paese e al rientro volontario di tutti quei siriani che sognano di tornare nelle proprie case”.

Il decennio della guerra siriana offre anche l’occasione per ricordare come si sono sviluppate le “primavere arabe”, in un’area geo-politica che si estende dal Maghreb tunisino a Damasco, passando per la Libia e l’Egitto, scendendo fino alla parte più meridionale della penisola arabica, ove si è innescato un altro scenario drammatico fatto di guerra e crisi umanitarie qual è appunto lo Yemen.

Nell’estate del 2010 fu l’Egitto a registrare le proteste delle classi dirigenti per l’intenzione dell’allora presidente Mubarak, il quale, come un moderno faraone noncurante dell’istituzione repubblicana, intendeva nominare suo figlio Gamal quale successore. Nel dicembre dello stesso anno toccò alla Tunisia, dove un giovane venditore ambulante si dette fuoco per protestare contro l’ennesima confisca del suo carretto utilizzato per vendere le mercanzie. La reazione della popolazione fu talmente compatta in tutto il Paese, al culmine di una sopportazione durata anni, che il 14 gennaio 2011 il presidente Ben Ali dovette fuggire in Arabia Saudita. L’11 febbraio anche il presidente Mubarak rassegnò le dimissioni. Nel corso del 2011 anche la Libia voltò le spalle a Gheddafi, mentre in Yemen, un anno dopo, il presidente Ali Abdullah Saleh fu costretto ad abbandonare un potere ventennale. Insomma, tutto lasciava presagire che ci sarebbe stata una svolta decisiva nei regimi politici e nella società di questi Paesi.

Anche in Siria, dunque, la speranza di buona parte della società civile era che il regime pluridecennale della famiglia Assad fosse oramai giunto al capolinea. Non fu così. Come si legge nel dossier della Caritas Italiana, “l’energia dei manifestanti si scontro, ovunque, con una realtà amara e complessa”. Le manifestazioni iniziate nel marzo del 2011 “assunsero il volto di una rivoluzione volta al rovesciamento del regime di Bashar al-As­sad; una rivoluzione tradita e fallita, trasfor­matasi in breve tempo in una piccola guerra mondiale che ha visto in campo forze turche, iraniane, russe e americane, oltre ai contendenti “locali” e cioè l’esercito lealista di Bashar Al Assad e le varie milizie autoctone, dai curdi del nord-est ai miliziani jihadisti di vario co­lore o estrazione”.

Ancora oggi la Siria continua a subire il drammatico costo di questo conflitto. Come in ogni guerra, a pagarlo è soprattutto la popolazione civile, che spera di tornare al più presto a vivere in pace nel proprio Paese.

Raffaele Callia

Povertà e conseguenze economiche della pandemia

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Com’era facile prevedere, le conseguenze economiche dei diversi e prolungati periodi di confinamento, a seguito dei necessari provvedimenti volti a contenere la diffusione del virus fin dall’insorgere della pandemia, stanno producendo una crescita delle situazioni di fragilità tra le famiglie italiane.

Dopo essersi giustamente soffermati sulle difficoltà registrate nell’ambito della sfera psicologica e relazionale, con l’impossibilità di vivere ordinariamente la vita sociale e le dinamiche affettive (di pari passo con l’aumento dei casi di violenza domestica), gli studiosi cominciano a fare il punto anche sulle fragilità riguardanti l’ambito socio-economico.

In altri termini, dopo aver generato e moltiplicato fenomeni quali la “sindrome della capanna”, le non poche problematiche legate alla didattica a distanza, le fragilità psicologiche e morali di chi vive il problema della solitudine (a cominciare dagli anziani), la pandemia ha presentato il conto anche in termini di fragilità economiche, soprattutto tra i lavoratori precari, i giovani e gli stranieri.

A fornire una fotografia aggiornata e allo stesso tempo problematica è stato l’Istituto nazionale di statistica, il quale, sulla base delle stime preliminari circa la povertà assoluta in Italia per l’anno 2020, il 4 marzo scorso (in anticipo rispetto al consueto appuntamento annuale di giugno) ha pubblicato uno studio in cui emerge chiaramente come la povertà sia tornata a crescere nuovamente, azzerando sostanzialmente i miglioramenti registrati nel 2019 e raggiungendo il valore più elevato dal 2005.

Nel 2020, secondo l’Istat, l’incidenza della povertà assoluta risulta in aumento sia in termini familiari (passando dal 6,4% al 7,7%, pari a 335.000 famiglie in più) sia in termini di individui (dal 7,7% al 9,4%, con oltre 1.000.000 di persone in più). Tale incremento porta a oltre 2.000.000 il numero di famiglie italiane (pari a circa 5,6 milioni di persone) che si trova in condizioni di povertà assoluta.

Se il 2019 era stato contrassegnato da una diminuzione della povertà (tra i cali più significativi quello registrato in Sardegna, con una diminuzione del numero delle famiglie in condizione di povertà relativa, passato da 141.000 a 94.000), il 2020 registra purtroppo una ripresa con intensità elevata, che neppure la sussistenza delle misure volte a favorire un sostegno economico integrativo dei redditi familiari (si pensi, ad esempio, al Reddito di Cittadinanza o alla Pensione di Cittadinanza) è stata in grado di contrastare.

Va precisato che gli effetti socio-economici della pandemia hanno colpito tutti, seppure con intensità e in modi diversi. I dati forniti dall’Istat parlano di un aumentato rischio di povertà per le famiglie con figli e con persona di riferimento occupata (più contenuti gli effetti per i pensionati); per le famiglie composte sia da italiani sia da stranieri, ma segnatamente per questi ultimi. I giovani, poi, ancora una volta risultano essere tra le categorie più vulnerabili. In altri termini la crisi pandemica ha colpito sostanzialmente le stesse tipologie già vulnerate dalle crisi precedenti, compresa quella finanziaria.

Il rischio di povertà è aumentato in particolare al Nord Italia, un’area in cui il numero dei nuclei familiari in povertà è cresciuto di circa 218.000 unità nel corso del 2020 (pari a circa il 65% dell’incremento su scala nazionale). Tale peculiarità geografica si spiega per il fatto che proprio al Nord si concentrano i più significativi livelli occupazionali nel settore privato (nel Sud è maggiore la rilevanza degli stipendi pubblici), vale a dire quelli che hanno subito in modo pesante gli effetti del confinamento. Inoltre, essendo omogenei per territori gli importi erogati dal Reddito di Cittadinanza, il differente costo della vita rende più efficaci tali misure al Sud piuttosto che al Settentrione d’Italia. Sempre al Nord, peraltro, si concentra il maggior numero di residenti stranieri, le cui famiglie – come già rilevato – sono state colpite in modo particolare dagli effetti socio-economici della pandemia.

Raffaele Callia